È legittimo l’avviso d’accertamento con cui l’Agenzia delle entrate ha determinato il reddito imponibile dell’amministratore di condominio, sulla base delle fatture emesse dai condomini da lui amministrati o dei verbali di affidamento dell’incarico, da cui è desumibile anche il relativo compenso. Spetta al professionista fornire la prova contraria, analitica e puntuale, che i fatti contestati non siano riferibili a operazioni imponibili. Questo il principio espresso dalla Corte di cassazione nell’ordinanza n. 18100 del 6 giugno 2022.
I fatti
Il giudizio verte sul ricorso proposto da un amministratore di condominio avverso un avviso d’accertamento con cui, all’esito delle risultanze di una verifica fiscale della Guardia di finanza, a cui sono seguite le indagini bancarie sui rapporti finanziari del professionista, l’Agenzia delle entrate ha rideterminato il reddito imponibile, sulla base delle informazioni desunte dai dati contabili dei condomini amministrati dallo stesso professionista accertato.
Il ricorso è stato accolto dalla Ctp e, avverso tale decisione, l’ufficio ha proposto appello, a sua volta accolto dalla Ctr che, in riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto che il contribuente non avesse ottemperato all’onere probatorio a proprio carico, non avendo dimostrato che gli elementi prodotti dai verificatori e dall’ufficio accertatore non fossero riferibili a operazioni imponibili.
Contro la seconda sentenza ha proposto ricorso per cassazione il contribuente, lamentando violazione degli articoli 32 e 38 del Dpr n. 600/1973, nella parte in cui il giudice d’appello non ha ritenuto sufficiente la documentazione esibita dal contribuente ai fini del superamento della presunzione di evasione.
I giudici della Corte di cassazione hanno ritenuto infondato il motivo e hanno rigettato in toto il ricorso proposto dal professionista, condannandolo anche al pagamento delle spese di giudizio nei confronti dell’Agenzia delle entrate.
La decisione
Nel caso in questione, l’Agenzia delle entrate ha emesso l’avviso di accertamento impugnato sulla base delle risultanze del processo verbale di contestazione redatto dalla Guardia di finanza. All’esito dell’attività di verifica l’ufficio dell’Agenzia ha rettificato il reddito imponibile dichiarato dall’amministratore di condominio accertando maggiori compensi non dichiarati che, a quanto sembra presumibile ritenere dal testo della sentenza, erano stati accreditati sul conto corrente del professionista. Detti compensi erano relativi all’ordinaria attività di gestione dei condomini amministrati dal professionista ed erano stati estratti in sede di verifica, con l’ausilio dello stesso contribuente, dalle fatture emesse dai condomini oppure, in mancanza, dai verbali di assemblea nei quali veniva affidato l’incarico e stabilito il relativo compenso.
In sede di contraddittorio endoprocedimentale, nel corso del quale la parte era stata messa nelle condizioni di ottemperare al proprio onere probatorio, il contribuente si era limitato a fornire la propria documentazione contabile, formalmente corretta, nonché un prospetto extracontabile riepilogativo della propria posizione reddituale.
In sede di controllo e in sede giudiziale, tale documentazione non è stata ritenuta idonea a superare la pretesa erariale, in quanto generica e non puntuale, tanto da non consentire di dimostrare l’avvenuta contabilizzazione e la conseguente dichiarazione dei compensi individuati analiticamente dai verificatori o di spiegare i motivi dell’omessa contabilizzazione. La Corte di cassazione ha dunque confermato che, sul punto, mancava qualsiasi prova contraria da parte del contribuente, idonea a dimostrare in maniera puntuale che gli elementi probatori raccolti dai verificati e prodotti in giudizio non fossero riferibili a operazioni imponibili.
Dal testo della decisione pare ragionevole dedurre, che i maggiori compensi accertati fossero stati accreditati sul conto corrente del contribuente in quanto i giudici di legittimità hanno ribadito una serie di principi in tema di accertamento bancario.
In primo luogo è stata richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 228/2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 32, primo comma, n. 2, secondo periodo, del Dpr n. 600/1973, limitatamente alle parole “compensi”. Tale decisione ha fatto venire meno l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale, con la conseguenza che, limitatamente ai prelevamenti, la presunzione legale relativa di evasione si applica solo nei confronti dei titolari di reddito di impresa. Di contro, essa è estendibile alla generalità dei contribuenti per quanto riguarda il valore presuntivo dei versamenti, sia il contribuente un professionista o un semplice percettore, ad esempio, di soli redditi di lavoro dipendente.
Dal lato probatorio spetta al contribuente offrire la prova liberatoria che i versamenti addotti dall’ufficio siano riferiti a somme già incluse nel reddito imponibile o che sono irrilevanti a tal fine, sia con riferimento ai soggetti che hanno disposto gli accrediti che alle diverse cause giustificatrici.
Ancora, in tema di onere della prova, il contribuente deve fornire una prova analitica, non generica o sommaria, atta a dimostrare che ogni singolo versamento sia fiscalmente irrilevante. Dopodiché il giudice di merito deve verificare l’efficacia dimostrativa delle prove fornite dal contribuente, rifuggendo “da qualsiasi valutazione di irragionevolezza ed inverosimiglianza dei risultati restituiti dal riscontro delle movimentazioni bancarie, in quanto il giudizio di ragionevolezza dell’inferenza dal fatto certo a quello incerto è già stato stabilito dallo stesso legislatore con la previsione, in tale specifica materia, della presunzione legale”.
fonte fiscooggi.it