I costi sostenuti per la cessione gratuita a vip dei capi d’abbigliamento griffati, da parte della nota casa di moda che li ha prodotti, integrano spese di rappresentanza, solo parzialmente deducibili, e non di pubblicità o propaganda, interamente deducibili. Il “taglio” integrale dall’imponibile, inoltre, non può essere giustificata sulla base della sola sussistenza del presupposto dell’inerenza all’attività d’impresa. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza n. 13100 del 30 giugno 2020.
I fatti
Con avviso di accertamento notificato a una società di alta moda, l’ufficio ha rettificato il valore della produzione netta, recuperando a tassazione Irap per l’anno d’imposta 2004 (anche) i costi di public relations resi da società terze, di nazionalità britannica e statunitense, e ritenuti deducibili in 5 anni, nei limiti di un terzo del loro ammontare, in quanto “spese di rappresentanza”.
Si trattava di somme corrisposte dalla griffe italiana per la cura dei rapporti con la stampa locale, per l’assistenza e la consulenza prestate nel campo della definizione e della realizzazione di politiche pubblicitarie, attinenti allo sviluppo e all’incremento della conoscenza del marchio nei principali mercati in cui la stessa società operava (Usa e Regno Unito). I giudici di merito, tuttavia, hanno aderito alla qualificazione dei costi fornita dalla contribuente in termini di “spese di pubblicità”. La Commissione provinciale, infatti, ha ritenuto che “…le società interessate curavano, tra altre attività, i rapporti con la stampa mediante sviluppo di relazioni con giornali specializzati e non, e con emittenti televisive, nonché assistenza e consulenza per la definizione e realizzazione di politiche pubblicitarie, curavano la organizzazione di eventi quali sfilate e inaugurazioni di boutiques; pertanto…non si trattava di pubblicizzazione del marchio, ma vere e proprie prestazioni di servizi strettamente correlate ai ricavi”.
Dello stesso avviso la Commissione regionale che ha riconosciuto la deducibilità integrale dei costi sulla base:
del linguaggio comunicativo adottato dalle società di alta moda che consiste nell’associare al marchio un mondo che si caratterizza e si identifica con uno stile di vita immediatamente riconoscibile, coinvolgendo personaggi appartenenti al mondo dello spettacolo, del cinema e dello sport. “… Questi mondi, al pari di quelli della moda, presentano forti connotazioni aspirazionali e i loro protagonisti rappresentano altrettanti modelli per il pubblico di consumatoti finali…”. Di conseguenza, fornire (in uso, o più spesso, in omaggio) alle suddette star abiti, accessori o altri prodotti contrassegnati dal marchio aziendale, affinché essi vengano indossati o utilizzati in occasione di feste, premiazioni, cerimonie o alti eventi a elevatissima visibilità, risulta “il primo fattore di influenza delle scelte di acquisto dei consumatori …”
del parere n. 1/2001, adottato dal Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive e relativo alla necessità di attribuire alla spesa il carattere di “inerenza”, che “la rende comunque deducibile in base al principio generale di cui all’articolo 75 TUIR (ora art. 109). Solo in assenza di detto legame entrerebbe in giuoco l’articolo 74 del TUIR stesso (ora art. 108), che imporrebbe di distinguere tra pubblicità e rappresentanza. In sostanza, tale parere introduce un ‘tertius genus’ quale quello di spesa commerciale, interamente deducibile in quanto direttamente connessa all’attività …”.
L’Agenzia ha proposto ricorso per Cassazione, lamentando, tra l’altro, violazione degli articoli 108 e 109 del Tuir, poiché, a parte il consolidato orientamento di legittimità in materia di distinzione tra spese di rappresentanza e di pubblicità disatteso dalla Commissione regionale, il giudice di secondo grado ha effettuato una commistione tra le due norme citate senza tener conto che le spese sono integralmente deducibili ove siano astrattamente idonee a determinare un incremento delle vendite dei prodotti, limitatamente deducibili ove siano astrattamente idonee solo alla conservazione o accrescimento del prestigio o miglioramento dell’immagine dell’impresa e non deducibili ove non presentino alcuna delle predette caratteristiche.
La Corte, con la sentenza in commento, ha accolto il motivo di ricorso sostenendo che “…costituiscono spese di rappresentanza quelle affrontate per iniziative volte ad accrescere il prestigio e l’immagine dell’impresa ed a potenziarne le possibilità di sviluppo…”.
L’ordinanza
I giudici di piazza Cavour, dopo aver individuato il criterio discretivo tra spese di pubblicità e spese di rappresentanza, hanno chiarito che è onere del contribuente dimostrare la natura delle spese da lui sostenute.
Prima, quindi, hanno ribadito che rientrano nelle spese di rappresentanza quelle effettuate senza che vi sia una diretta aspettativa di ritorno commerciale, e che vanno, invece, considerate spese di pubblicità o propaganda le altre, sostenute per ottenere un incremento, più o meno immediato, della vendita di quanto realizzato nei vari cicli produttivi e, in certi contesti, anche temporali. Il criterio discretivo va, dunque, individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi che, per le spese di pubblicità o propaganda, di regola, consiste in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, essendo spese erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque dell’attività svolta (Cassazione, pronunce nn. 10636/2018, n. 8126/2016, 8123/2016, 8121/2016 21977/2015 e 3433/2012).
In assenza di una disposizione fiscale che definisca le due tipologie di spese, ma sussistendo comunque un diverso regime fiscale di deducibilità che è chiaro indice della volontà legislativa di distinguere la natura delle due categorie di costi, la Cassazione ha ribadito che la cessione gratuita a vip dei capi d’abbigliamento griffati resta sicuramente estranea alla fattispecie legale della pubblicità o propaganda. Ciò in quanto, in tali casi, non solo manca ogni dovere – se non quello morale – d’indossare gli indumenti griffati in situazioni di pubblica visibilità quali manifestazioni pubbliche, ma soprattutto può mancare persino l’immediata percezione e, quindi, il diretto riferimento del capo alla griffe per il grande pubblico, se il tutto non sia accompagnato da un ben diverso e incisivo messaggio integrativo.
La Cassazione, quindi, ha affermato la necessità che sia il contribuente a dimostrare il collegamento, obiettivo e immediato, della spesa sostenuta con la promozione dei capi indossati e con l’aspettativa diretta di un maggior ricavo dalla loro vendita, non potendo la società di moda limitarsi a rilevare, come nella fattispecie esaminata, che i vestiti donati ai personaggi dello spettacolo siano stati pubblicizzati in riviste del settore e visionati alle sfilate dai principali compratori. Quest’ultima circostanza, infatti, in mancanza di prova del suddetto collegamento, non implica che i costi sostenuti siano stati funzionali alla pubblicità dei capi (Cassazione, pronuncia n. 10636/2018).
Inoltre la Corte ha affermato che la gratuità della cessione ben può essere considerata ulteriore caratteristica rilevante per la connotazione della spesa come di mera rappresentanza (Cassazione, pronuncia n. 10910/2015).
Infine, la Corte ha cassato la sentenza impugnata nella parte in cui ha giustificato l’integrale deducibilità dei costi richiamando il “preferibile orientamento che guarda all’inerenza con l’attività di impresa, piuttosto che ai ricavi di impresa”. Dal passo motivazionale del giudice di secondo grado seguirebbe una commistione illegittima fra gli articoli 108 e 109 del Tuir, con conseguente deducibilità integrale dei costi in presenza del presupposto dell’inerenza, e con deducibilità parziale dei costi solo in difetto di inerenza, giustificata proprio dall’assenza di tale presupposto, ex articolo 108 Tuir. Al riguardo la Cassazione ha affermato che “questa lettura del disposto normativo è contraria alla lettera della legge, né le indubbie peculiarità delle case di moda possono indurre ad un appiattimento fra spese di pubblicità, promozione o rappresentanza fissate dal legislatore…”.
fonte fiscooggi.it
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