Rito tributario: non irragionevole, per la Consulta, il vigente modello di trattazione flessibile del processo tributario “capace di assicurare, anche nella versione camerale, un confronto tra le parti effettivo e paritario”.
La Corte costituzionale, con sentenza n. 73 del 18 marzo 2022, ha giudicato non fondate le questioni di legittimità degli artt. 30, comma 1, lettera g), numero 1), della Legge n. 413/1991, 32, comma 3, e 33 del Decreto legislativo n. 546/1992 , sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Catania.
Si tratta delle disposizioni che, in materia di contenzioso tributario, rimettono alla valutazione discrezionale delle parti l’individuazione della forma della trattazione nei processi di primo e di secondo grado.
Secondo la CTP rimettente, tali norme si porrebbero in contrasto con l’art. 101 Cost., in quanto, nelle liti fiscali, la regola generale della pubblicità dei dibattimenti giudiziari non potrebbe essere derogata dalla volontà dei litiganti, in considerazione del carattere indisponibile della pretesa fiscale dedotta in giudizio.
A parere della Commissione tributaria, inoltre, sarebbe violato anche l’art. 111 Cost. poiché le medesime norme, nel condizionare la completezza del contraddittorio all’esercizio di una facoltà che presuppone la disponibilità dell’interesse in lite, di cui la parte pubblica sarebbe priva, arrecherebbero un vulnus alla piena realizzazione del giusto processo.
Secondo il rimettente, infine, l’art. 33, comma 1, del D.lgs. n. 546 prevedendo, in assenza della richiesta della pubblica udienza, la trattazione della causa in camera di consiglio, si porrebbe in contrasto con l’art. 136 Cost., “essendo stata già dichiarata costituzionalmente illegittima una norma – espressa dall’art. 39, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 636 (Revisione della disciplina del contenzioso tributario) – che escludeva l’applicabilità al processo tributario del principio generale di pubblicità dell’udienza di cui all’art. 128 del codice di procedura civile”.
La Corte costituzionale, dopo aver ricostruito il quadro normativo in cui si inseriscono le disposizioni censurate, ha rigettato tutte le questioni prospettate dalla CTP, valutando, in primo luogo, l’ultima doglianza, relativa all’asserita violazione dell’art. 136 Cost., questione ritenuta prioritaria, in quanto attinente all’esercizio stesso del potere legislativo.
La Consulta, sul punto, ha rammentato la costante interpretazione secondo la quale la violazione del giudicato costituzionale si configura solo se la nuova disposizione mantiene in vita o ripristina gli effetti della medesima struttura normativa oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale.
Orbene, con la richiamata sentenza n. 50/1989 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 39 del predetto DPR, nella parte in cui escludeva l’applicabilità al processo tributario dell’art. 128 c.p.c., contenente l’enunciazione del principio di pubblicità dell’udienza.
Per contro, l’art. 33 ivi censurato prevede espressamente la pubblicità dell’udienza tributaria, sia pure condizionandola alla presentazione, da almeno una delle parti, di un’apposita istanza di discussione, e prescrivendo, in mancanza di tale richiesta, la trattazione della controversia in camera di consiglio.
Alla stregua della riforma introdotta, quindi, nel processo tributario i due riti, in pubblica udienza e in camera di consiglio, coesistono in rapporto di alternatività.
Ciò posto, il differente contenuto precettivo delle norme in raffronto esclude che sia stata riproposta la disciplina previgente, oggetto della declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata con la richiamata sentenza del 1989.
Secondo la Corte, a seguire, non sarebbe irragionevole la previsione di un rito camerale condizionato alla mancata istanza di parte dell’udienza pubblica.
Come più volte sottolineato, infatti, il rito camerale rinviene una coerente e logica motivazione nell’interesse generale ad un più rapido funzionamento del processo, interesse che assume particolare rilievo per il processo tributario, gravato da un contenzioso di dimensioni particolarmente ingenti.
Parimenti infondata, infine, è stata considerata l’ulteriore censura sull’asserita lesione del principio del giusto processo, nell’accezione di garanzia della partecipazione dialettica delle parti: per la Corte, non sussiste un’unica forma in cui il confronto dialettico possa estrinsecarsi, dovendosi escludere che questa vada necessariamente identificata nella difesa orale.
Difatti, non in tutti i processi la trattazione orale costituisce un connotato indefettibile del contraddittorio e, quindi, del giusto processo, potendo tale forma di trattazione essere surrogata da difese scritte tutte le volte in cui la configurazione strutturale e funzionale del singolo procedimento, o della specifica attività processuale da svolgere, lo consenta e purché le parti permangano su di un piano di parità.
E secondo la Corte costituzionale, neanche nel processo tributario la previsione, come regola, della trattazione scritta è di ostacolo a una piena attuazione del contraddittorio.
Le disposizioni censurate – si legge ancora nella decisione – non escludono la discussione in pubblica udienza, ma ne subordinano lo svolgimento alla tempestiva richiesta di almeno una delle parti; esse, inoltre, attribuendo ai litiganti la facoltà di depositare, oltre alle memorie illustrative, ulteriori memorie di replica in un identico termine, garantiscono un’adeguata e paritetica possibilità di difesa.
In definitiva, le disposizioni censurate, “definendo un modello di trattazione flessibile e capace di assicurare, anche nella versione camerale, un confronto tra le parti effettivo e paritario, e conciliandosi con le caratteristiche strutturali e funzionali del contenzioso tributario, costituiscono espressione non irragionevole della discrezionalità riservata al legislatore nella conformazione degli istituti processuali”.
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