Ai fini della tassazione degli atti giudiziari, l’avviso di liquidazione che rechi gli estremi del provvedimento non deve essere corredato dall’allegazione della sentenza, perché il contribuente, che è stato parte del processo, ne conosce il contenuto. Così si è espressa la Sezione tributaria della Corte di cassazione, con due pronunce del 5 novembre 2021, la sentenza n. 31966 e l’ordinanza n. 31934, che si discostano da un non condivisibile orientamento di segno opposto.
Nel caso trattato dalla sentenza n. 31966, un ufficio territoriale dell’Agenzia delle entrate aveva tassato una sentenza di Tribunale e – ritenendo ricorrere il “caso d’uso” – la fideiussione in essa enunciata (aliquota 0,50%: articolo 6 della Tariffa parte I).
Mentre la Ctp aveva annullato la pretesa relativamente alla fideiussione, confermandola nel resto, la Ctr, pronunciandosi sugli appelli di entrambe le parti, aveva annullato integralmente l’avviso perché ad esso non era allegata la sentenza. Secondo la Ctr, quindi, l’ufficio avrebbe contravvenuto alla disposizione dell’articolo 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, il quale prevede, tra l’altro, che “se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama”.
L’Agenzia, nel proprio ricorso, ha sostenuto che i giudici di appello non avrebbero dovuto annullare l’atto, in quanto l’obbligo di allegazione non è necessario nelle fattispecie nelle quali la sentenza civile sia stata emessa in esito ad un contenzioso al quale abbia preso parte la società, con conseguente piena, formale e sostanziale, conoscenza della sentenza di cui si lamenta la mancata allegazione.
Con un secondo motivo, anch’esso accolto, l’ufficio ha contestato l’annullamento della tassazione della fideiussione, avvenuto in violazione dell’articolo 22 del Dpr n. 131/86 in tema di enunciazione.
Il caso trattato dall’ordinanza n. 31934 è simile, anche se gli esiti del giudizio di merito erano stati opposti, giacché la società ricorrente era risultata soccombente nei gradi di merito. Anche in questo caso vi è una questione ulteriore, ovvero la presunta carenza di legittimazione passiva del curatore fallimentare, che sosteneva di essere cessato dalla carica prima dell’instaurazione del giudizio civile che aveva condotto alla sentenza tassata. Il motivo viene rigettato dalla Corte sulla scorta della considerazione che – come del resto rilevato dalla Ctr – l’indicazione della qualifica era contenuta proprio nella sentenza civile.
Come già ricordato, l’articolo 7 (ma in termini simili si veda anche la legge sul procedimento amministrativo n. 241/90, all’articolo 3, comma 3) della legge n. 212/00 prevede che “se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama”.
Il precetto viene in rilievo allorché l’Agenzia delle entrate, come accade di frequente, nel redigere gli avvisi di accertamento adotta la tecnica della cosiddetta motivazione per relationem. Per esigenze di economia di scrittura, è possibile che si limiti a rinviare al contenuto del processo verbale di constatazione già consegnato al contribuente, di cui è condiviso il contenuto, per poi passare direttamente alla determinazione delle imposte dovute e all’eventuale irrogazione delle sanzioni.
Si tratta di una modalità di redazione degli atti da ritenersi pienamente lecita, giacché la disposizione dello Statuto che obbliga all’allegazione degli atti “presupposti” è costantemente interpretata come riferita esclusivamente agli atti di cui il contribuente non abbia già integrale e legale conoscenza (cfr Cassazione n. 29968/19). Si ritiene ammissibile anche la cosiddetta doppia motivazione per relationem, qualora a propria volta il pvc faccia riferimento ad atti già conosciuti o agevolmente conoscibili dal contribuente (cfr Cassazione n. 28060/17).
Ancora, sempre in tema di avvisi di accertamento, si è affermato (cfr Cassazione n. 20157/21) che è legittimo l’avviso di accertamento al socio di società persone che non alleghi il pvc emesso nei confronti della società, in quanto il socio ha il potere/dovere di consultare la documentazione sociale ai sensi dell’articolo 2261 cc. Allo stesso modo, si è ritenuto legittimo l’avviso notificato al socio di società di capitali “a ristretta base sociale”, contenente la ripresa a tassazione dei redditi di capitale che si presumono distribuiti, anche in difetto di allegazione dell’avviso notificato alla società (cfr Cassazione n. 21126/20).
In materia di imposta di registro, invece, la Cassazione ha talvolta adottato un orientamento molto più formalistico e rigoroso, secondo cui l’avviso di liquidazione dell’imposta di registro sarebbe sempre nullo se non accompagnato dal provvedimento giudiziario che ne costituisce il presupposto, nonostante ne indichi gli estremi (data e numero). Eppure, è ovvio che tale provvedimento deve essere noto al soggetto chiamato al pagamento dell’imposta, dato che questi è stato parte in causa nel giudizio civile.
Da tale orientamento si discosta, motivatamente, e in maniera del tutto condivisibile, la sentenza n. 31966 in commento.
Nella sentenza si ricorda, in via preliminare, che l’obbligo di motivazione è posto a garanzia del diritto di difesa del contribuente e, anche se in maniera “più sfumata”, della verifica della correttezza dell’attività amministrativa sotto il profilo dell’esercizio dei poteri istruttori e, quindi, della legittimità intrinseca nell’esercizio del potere dell’Amministrazione finanziaria.
Sulla scorta della premessa che “la funzione informativa della motivazione viene rispettata anche dalla c.d. motivazione per relationem, che è da ritenere legittima se l’atto cui si fa riferimento è in possesso del contribuente e/o dallo stesso è conoscibile”, la Corte confuta la difesa dellas controricorrente secondo cui non sarebbe sufficiente la menzione del numero della sentenza e nemmeno dei capi di sentenza oggetto di tassazione.
Viene infatti richiamato il Dlgs n. 32/2001, con il quale sono state attuate, nei diversi comparti impositivi, le previsioni dello Statuto in tema di motivazione. In particolare, l’articolo 1 di tale decreto (così come anche gli altri articoli) prevede che l’atto non conosciuto può non essere allegato purché ne venga riprodotto il “contenuto essenziale”.
È proprio quanto verificatosi nel caso di specie, perché – afferma la Corte – “i dati riportati nell’atto impositivo hanno consentito al contribuente di esercitare adeguatamente le proprie difese, essendo stati anche riportati gli elementi del dictum sufficienti a fargli comprendere le ragioni della pretesa fiscale”.
L’allegazione di un provvedimento già conosciuto, del quale vengono riprodotte le parti essenziali, è pertanto un “adempimento superfluo”, ed è per questo motivo che la Corte, ponendosi in linea con quanto sostenuto nella sentenza n. 21713/20, ritiene di non condividere l’orientamento “formalistico” al quale si rifanno altre pronunce.
Una dei motivi alla base delle ragioni dell’indirizzo opposto è che, non conoscendo la sentenza, il contribuente dovrebbe farsi parte attiva al fine di reperirla, così subendo la compressione del termine di impugnazione di 60 giorni. Su tale aspetto si sofferma l’ordinanza n. 31934 che, seppure in maniera più sintetica, ricorda che l’obbligo di allegazione non ha la finalità di procurare al contribuente, oltre alla conoscenza legale dell’atto, anche la sua disponibilità materiale.
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