di Liberato Ferrara*
Il flop annunciato dei referendum non cancella il loro costo. La farsa di ieri è costata una cifra impressionante ad una nazione che già in difficoltà enormi. E’ il costo della democrazia, si dirà. No, a nostro avviso è il costo dell’approssimazione dei nostri politici.
In Italia per indire un referendum bastano 500mila firme. Per farlo approvare serve non solo la maggioranza degli elettori, ma che ci sia anche il 50% più 1 degli elettori che si rechi al voto. Il primo referendum in Italia fu quello sul divorzio. Parliamo di quasi 50 anni fa. Un’era geologica fa. A quei tempi era difficile raccogliere le firme, ma poi il quorum non era in discussione. Oggi non ci vuole nulla a raccogliere mezzo milione di firme. Ma considerando che ormai, a differenza del passato, c’è un astensionismo di base vicino al 40%, basta che coloro che sono contrari non vanno a voto ed il gioco è fatto.
L’astensionismo al referendum non è un’invenzione dei giorni nostri. Il primo a parlarne fu Craxi in occasione del referendum sulla scala mobile. I suoi colleghi non accettarono la proposta. Il referendum raggiunse facilmente il quorum, ma a vincere furono i NO.
Si tenga presente un altro aspetto: i parlamentari hanno sempre la possibilità di cambiare la legge oggetto di consultazione popolare. Se non lo fanno significa che la maggioranza vuole che resti. In linea di principio dietro la maggioranza parlamentare dovrebbe esserci una maggioranza anche nel popolo. Quindi l’arma referendaria è a prescindere di difficile applicazione. Difatti sono pochi i referendum che hanno portato ad una abrogazione della legge. A vincere sono stati quasi sempre i no.
Cosa voglio dire? Semplice: la legge così com’è non ha senso. E’ facile raccogliere le firme, impossibile o quasi raggiungere il quorum. La soluzione è alzare il modo importante il numero di firme. Diciamo 2 milioni, e abolire il quorum. Altrimenti saranno sempre soldi buttati. Soldi che l’Italia non può permettersi di spendere.
*giornalista professionista