La Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi sulle conseguenze penali delle omesse o false dichiarazioni in sede di richiesta per il conseguimento del reddito di cittadinanza, mutando orientamento rispetto alla lettura cui aveva aderito finora.
Con sentenza n. 44366 depositata il 1° dicembre 2021, in particolare, ha confermato il sequestro preventivo emesso a carico di una donna, indagata in ordine alla violazione di cui all’art. 7, comma 1, del Dl n. 4/2019, per aver omesso di fornire, in occasione della presentazione dell’istanza per accedere al reddito di cittadinanza, le complete informazioni concernenti la sussistenza dei requisiti per il godimento del beneficio.
Il sequestro, in particolare, aveva avuto ad oggetto la carta di debito sulla quale erano state riversate le rimesse finanziarie a titolo di RdC nonché le somme esistenti sulla predetta carta.
La misura preventiva era stata disposta in quanto l’indagata non aveva dichiarato che il padre era detenuto in esecuzione di una sentenza con effetti privativi della libertà personale.
Secondo il Gip, tale circostanza aveva integrato gli estremi del reato lei contestato, risultando rilevante ai fini della verifica della sussistenza delle condizioni necessarie per accedere al beneficio secondo la previsione di cui all’art. 3, comma 13, del citato Decreto legge.
Ai sensi di tale ultima norma, infatti, è punito con la reclusione chiunque, al fine di conseguire “indebitamente” il reddito di cittadinanza, ometta le informazioni dovute.
L’indagata si era rivolta agli Ermellini, lamentando, tra gli altri motivi, una violazione di legge: secondo la sua difesa, il Tribunale del riesame aveva ritenuto integrato il fumus delicti, sebbene non fosse in discussione il fatto che la stessa avesse diritto al beneficio in questione e ciò anche se si fosse tenuto conto, nel calcolo degli elementi necessari per il conseguimento del RdC, del fatto che il padre era detenuto.
A suo dire, infatti, il dato omesso non era ostativo al riconoscimento del reddito di cittadinanza ma avrebbe comportato solo che di esso si sarebbe dovuto tenere conto ai fini del calcolo del superamento o meno dei limiti reddituali rilevanti per poter usufruire del beneficio.
Nel giudicare infondato il ricorso dell’indagata, la Suprema corte ha ritenuto opportuno rendere alcune puntualizzazioni.
Effettivamente – ha sottolineato il Collegio di legittimità – l’art. 7, comma 1 del Dl n. 4/2019 sanziona con la reclusione da 2 a 6 anni la condotta di chi “rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti ose non vere, ovvero omette informazioni dovute” quando ciò avvenga “al fine di ottenere indebitamente il beneficio”.
Un’interpretazione letterale delle parole utilizzate del legislatore, ciò posto, avallerebbe la tesi della ricorrente, secondo la quale la sussistenza del reato presuppone che la condotta dell’agente sia volta al conseguimento di un beneficio indebito, per tale intendendosi quello che, laddove questi non avesse reso dichiarazioni mendaci, prodotto documenti falsi o, infine, avesse fornito tutte le informazioni dovute, non gli sarebbe stato riconosciuto.
Nel caso in cui, però, egli fosse stato comunque legittimato ad accedere al beneficio, il reato non sarebbe configurabile.
Tale interpretazione, tuttavia, risulta contraria rispetto a quella affermata, finora, dalla giurisprudenza di legittimità – per come richiamata nelle sentenze n. 5289/2020 nonché n. 33431/2021 – ai sensi della quale il reato in esame sarebbe integrato dalle false informazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, dei dati di fatto riportati nell’autodichiarazione finalizzata all’ottenimento del RdC, indipendentemente dall’effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio.
Come già anticipato, la Terza sezione penale della Cassazione ha ritenuto di non poter aderire a tale impostazione, considerando la relativa argomentazione non del tutto sufficiente.
Secondo i giudici di Piazza Cavour, in particolare, con l’uso dell’avverbio “indubbiamente” il legislatore ha inteso fare riferimento, non tanto alla volontà di accesso al beneficio messa in atto in assenza degli elementi formali che avrebbero consentito l’erogazione delle somme, quanto a una volontà diretta a un conseguimento in assenza degli elementi sostanziali.
Tale lettura apparirebbe, secondo la Corte, maggiormente in linea con i principi di ordine costituzionale in tema di necessaria offensività del reato.
Nonostante quanto affermato, la Cassazione ha comunque respinto le specifiche doglianze della ricorrente, alla luce delle informazioni rese, nella specie, dalla Guardia di finanza – da ritenere sufficienti ai fini del decidere nella fase cautelare – dalle quali era emerso che la stessa, in ogni caso, non si trovava nelle condizioni reddituali per accedere al beneficio che le era stato indebitamente erogato.
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