Nell’ambito di un programma promozionale a punti per la fidelizzazione della clientela, se una società accetta di cedere merce ai clienti dietro consegna di buoni, incassando però, dalla società di gestione del programma per gli stessi buoni, un valore inferiore a quello della merce ceduta, finisce per praticare un vero e proprio sconto sul prezzo finale. L’Iva da versare all’Erario deve essere conteggiata non con riferimento al valore nominale del buono, bensì all’effettivo prezzo di cessione del buono alla società di gestione. Questo il principio stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n 25533 del 21 settembre 2021.
La Corte di cassazione è stata chiamata a dirimere una controversia insorta su ricorso proposto dall’ufficio in seguito all’impugnazione di una pronuncia della Ctr della Lombardia, del tutto confermativa della prodromica sentenza della Ctp di Milano, la quale aveva accolto il ricorso di una società (denominata per semplicità Beta) avverso un silenzio-rifiuto creatosi su un’istanza di rimborso di un credito Iva relativo all’anno d’imposta 2014.
I giudici di secondo grado avevano argomentato il rigetto dell’appello erariale partendo dalla ricostruzione dell’antefatto storico, originante il credito Iva poi chiesto a rimborso.
In particolare, la Ctr aveva precisato che la richiesta di rimborso, avanzata all’ufficio, derivasse da un errore di calcolo, in quanto la società appellata aveva determinato l’imposta sugli acquisti effettuati dai clienti con cosiddetti buoni della società emittente (denominata per semplicità Gamma) in rapporto al valore nominale di detti buoni (5 euro) e non con riferimento al prezzo concretamente versato da Gamma a Beta in esecuzione di accordi precedenti intercorsi (4,37 euro).
In estrema sintesi, la Ctr aveva confermato la sentenza di primo grado, richiamando la sentenza della Corte di giustizia europea causa C-288/94 del 24 ottobre 2006 dalla quale si ricavava il principio per cui la base imponibile relativa a cessioni di beni o prestazioni di servizi è rappresentata dal corrispettivo effettivamente percepito.
Nel caso concreto, quindi, l’utilizzo di buoni per il pagamento di beni acquistati ha determinato che “il reale controvalore in denaro rappresentato dal Buono va desunto dall’operazione iniziale di vendita del Buono stesso ed è pari al valore nominale del Buono diminuito dello sconto eventualmente praticato in quella fase”.
Su tale ultimo punto, infine, la Ctr riteneva che non vi fosse stata alcuna specifica contestazione da parte dell’ufficio.
L’Agenzia ha impugnato in Cassazione la sentenza di secondo grado, lamentando:
– l’errato richiamo alla citata decisione comunitaria, in quanto non corrispondente al merito della controversia in discussione, per il semplice motivo che la società venditrice Beta non applicava alcuno sconto nei confronti dei propri clienti ma usava normali prezzi di mercato; di talché, le prestazioni rese tramite l’utilizzo dei buoni in pagamento dovevano essere qualificate quali negozi giuridici a titolo oneroso e, quindi, soggette a Iva;
– l’erronea applicazione del principio di non contestazione da parte della Ctr la quale non aveva preso in considerazione le argomentazioni addotte dall’ufficio e atte a contrastare la metodologia analitica operata dalla società Beta.
La Cassazione, con l’ordinanza in esame, ha cassato con rinvio la pronuncia della Ctr impugnata in accoglimento del secondo motivo di censura proposto dall’ufficio.
In particolare, i giudici di legittimità partono dall’assunto che, nell’ambito di un programma promozionale a punti per la fidelizzazione della clientela, se una società (Beta) accetta di cedere merce ai clienti dietro consegna di buoni, incassando però dalla società di gestione del programma (Gamma), per gli stessi buoni, un valore inferiore a quello della merce ceduta (pari al valore nominale dei buoni medesimi), la società venditrice finisce per praticare un vero e proprio sconto sul prezzo finale.
Pertanto, l’Iva da versare all’Erario deve essere conteggiata non con riferimento al valore nominale del buono, bensì all’effettivo prezzo di cessione del buono alla società di gestione.
Tenuto fermo questo deliberato, la Cassazione ritiene fondata la doglianza dell’ufficio in tema di difetto di applicazione del cosiddetto principio di non contestazione.
Difatti, vertendo in ipotesi di rimborso d’imposta, l’onere della prova circa la sussistenza dei requisiti necessari a fondarne la richiesta incombe, come si può intuire, sul contribuente; e il più volte richiamato principio di non contestazione trova ingresso in ambito tributario.
Nel caso in questione, a fronte della richiesta di rimborso, avanzata da Beta, l’ufficio ne ha puntualmente contestato l’attendibilità attraverso argomentazioni, che possono qualificarsi come “mere difese” non soggette ad alcun limite processuale.
L’ufficio ha confutato radicalmente l’esistenza del credito chiesto a rimborso, pur in assenza di specifiche contestazioni circa il merito delle operazioni poste in essere da Beta allo scopo di quantificare l’entità dell’Iva indebitamente versata a seguito di errati calcoli e nei rapporti tra quest’ultima e la società Gamma (emittente i buoni spesa in pagamento).
In linea generale, il principio di non contestazione agisce sul piano dell’onere probatorio e non si pone in contrasto con il differente principio in base al quale l’omessa presa di posizione su una specifica censura del contribuente possa produrre l’effetto di delimitare artatamente il thema decidendum alle sole eccezioni concretamente contestate e per le quali ne sia stato chiesto l’espresso rigetto (cfr Cassazione, pronunce nn. 9732/2016 e 20832/2020).
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