Pur in presenza di una contabilità formalmente regolare, l’Agenzia delle entrate può ricostruire in via analitico-induttiva il reddito professionale del lavoratore autonomo sulla presunzione, che deve essere avvalorata da indizi gravi, precisi e concordanti, secondo cui a una prestazione professionale portata a termine – per effetto dell’esaurimento o della cessazione dell’incarico – consegue l’incasso del relativo compenso fiscalmente rilevante. La presunzione di evasione può essere superata solo se il contribuente fornisce idonea prova contraria della mancata corresponsione dei compensi. Pertanto, è legittimo l’accertamento nei confronti dell’avvocato sulla base del numero delle sentenze depositate presso le cancellerie degli uffici giudiziari, se il professionista non fornisce adeguata dimostrazione dell’insussistenza dei compensi accertati e non dichiarati. Sono queste le precisazioni contenute nell’ordinanza della Corte di cassazione n. 24255 del 9 settembre 2021.
I fatti
La vicenda trae origine dal contenzioso instaurato da un’associazione professionale avverso l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate, da cui è scaturita una maggiore pretesa fiscale ai fini Irap e Iva, oltre alle sanzioni. La rettifica del reddito dichiarato si fondava, da un lato, sul mancato riconoscimento della detraibilità di alcune spese e, dall’altro, sull’accertamento di maggiori compensi professionali non dichiarati.
Le ragioni della società sono state accolte sia in primo grado che dai giudici della Ctr. Avverso tale ultima decisione, con riferimento ai maggiori compensi accertati, l’amministrazione finanziaria ha proposto ricorso per cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione degli articoli 32 e 39 comma 1, lettera d), del Dpr n. 600\1973 e 54 del Dpr n. 633\1972.
La Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia e ha cassato con rinvio la sentenza impugnata.
La decisione
Nel caso concreto, l’accertamento dei maggiori compensi si è basato sulla ricostruzione analitico-induttiva del reddito di lavoro autonomo (articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr n. 600\1973).
Tale metodologia di controllo, utilizzabile esclusivamente nei confronti dei soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili, consente agli uffici dell’Agenzia delle entrate di ricostruire il reddito complessivo anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, pur in presenza di una contabilità che, nel suo complesso, è correttamente tenuta dal punto di vista formale.
Nella controversia in commento l’amministrazione finanziaria ha ricostruito il reddito dell’associazione professionale utilizzando, a base dell’accertamento, l’acquisizione di sentenze da diversi uffici giudiziari, sulla presunzione che ogni sentenza indicasse una prestazione professionale portata a termine o a compimento. Da tale ricostruzione erano emersi valori accertati che contraddicevano i dati dichiarati e, in sede di contraddittorio endoprocedimentale, il professionista non era stato in grado di giustificare la mancata corresponsione dei compensi accertati e, quindi, di superare la presunzione di maggior reddito. Da qui l’emissione dell’avviso di accertamento.
Riguardo allo specifico aspetto dell’omessa rilevazione nei registri contabili delle operazioni accertate dall’ufficio, la Corte di cassazione ne ha chiarito l’irrilevanza ai fini della legittimità dell’accertamento, visto che la rettifica della dichiarazione prescinde dalla contabilità, di per sé formalmente regolare, basandosi invece su presunzioni assistite dai requisiti previsti dall’articolo 2729 cc, di gravità, precisione e concordanza.
Sebbene la determinazione del reddito professionale avvenga secondo il criterio di cassa, ossia al momento dell’incasso derivante dall’attività professionale, la Corte di cassazione ha precisato che “il corrispettivo della prestazione del professionista legale si debba presumere conseguito quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell’esaurimento o della cessazione dell’incarico professionale”.
Nel procedimento in questione, l’ufficio finanziario ha accertato l’ammontare dei compensi dello studio prendendo, a base della rettifica, le sentenze acquisite e presumendo che ognuna di queste attestasse l’esaurimento o la cessazione dell’incarico professionale, coincidente con il momento della effettiva percezione del reddito.
A parere della Corte di legittimità la presunzione utilizzata dall’ufficio è legittima perché, a fronte della prova indiziaria costituita dalle sentenze acquisite in sede di controllo, sarebbe stato onere del contribuente provare l’insussistenza dei compensi accertati, dimostrando di non aver conseguito alcun reddito. La prova poteva consistere, ad esempio, nella produzione della diffida ad adempiere o delle richieste di decreto ingiuntivo nei confronti dei clienti, o provando l’infruttuosità dell’esecuzione. In buona sostanza, il professionista che avesse voluto superare la presunzione di evasione avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza di fattori che avevano impedito, o che astrattamente erano stati idonei ad impedire, l’incasso dei compensi. Ai fini della contestazione, inoltre, a nulla rileva la mancata emissione della fattura in quanto, nell’ipotesi in cui l’ufficio presuma il conseguimento del compenso, “appare ragionevole ritenere che tale fattura non sia stata emessa al fine proprio di sottrarsi al pagamento delle imposte”.
A giudizio della Corte di cassazione, la Ctr non ha correttamente attuato i principi su enunciati perché non ha dato rilevanza alla presunzione dell’ufficio finanziario, secondo cui il compenso per attività professionale può ragionevolmente considerarsi corrisposto quando la prestazione è portata a termine, salvo ovviamente idonea prova contraria, che nel caso in esame il contribuente non era stato in grado di fornire.
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