Continua, a passo deciso e senza accennare incertezza, il progetto di riforma fiscale globale, figlio di un nuovo approccio collaborativo (almeno quando si parla di riscuotere le imposte) tra gli Stati, che sembra aver superato la precedente fase basata sulla competizione fiscale.
Il percorso è stato veloce e non ha trovato ostacoli rilevanti sul suo cammino: in giugno i ministri dell’economia e delle finanze del G7 hanno approvato a Londra l’originario progetto di tassazione globale (ne avevamo parlato con l’articolo L’accordo sulla tassazione delle multinazionali contro lo scoglio della base imponibile), a luglio il G20 di Venezia ha ratificato l’accordo (ne avevamo parlato con l‘articolo Al G20 l’accordo sulla minimum tax globale al 15% con tanti problemi applicativi), nei giorni scorsi, a Parigi, i paesi aderenti all’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, hanno aderito all’accordo.
Ad oggi, si tratta di un accordo forte della ratifica dei 140 paesi economicamente più avanzati, con la sola esclusione di Kenya, Nigeria, Pakistan e Sri Lanka, che non si possono definire dei giganti dell’economia mondiale.
Il cammino discendente intrapreso dall’accordo, che è partito dal G7, per essere poi ratificato dal G20 e, solo alla fine, dall’OCSE, rende l’idea del quadro generale: le grandi economie mondiali premono per questo progetto di riforma: si sono rese conto che la competizione fiscale con i paesi piccoli o emergenti, i quali hanno necessità di spesa più limitate, è perdente, e che da questa ottengono solo perdita di gettito fiscale (che le loro stesse aziende più grandi non versano nelle loro casse).
Davanti al fronte compatto dei paesi economicamente più grandi, hanno dovuto cedere persino quei paesi che sulla competizione fiscale hanno basato la propria economia.
L’accordo quadro, allo stato attuale, è fondamentalmente quello uscito dal G7, con alcune piccole modifiche, costituito da due linee di tassazione internazionale:
una minumum tax globale con aliquota del 15%;
una web tax, basata sulla territorialità, da corrispondere al paese in cui l’impresa digitale opera, in ragione di almeno il 25% dei profitti che superano un margine del 10% dei ricavi.
Quanto poco i paesi contrari a questo sistema di tassazione globale hanno ottenuto, prima di doversi piegare, rende l’idea dell’intensità della forza politica che spinge il progetto, e della volontà di realizzarlo.
L’Irlanda, un paese che ha costruito la sua rinnovata fortuna sulla competizione fiscale, ha ottenuto soltanto il depennamento della parola “almeno” da accanto all’identificazione dell’aliquota del 15% (ma il Dipartimento del tesoro USA si è affrettato a precisare che, in ogni caso, l’aliquota indicata rappresenta un livello minimo, e non uno massimo), e il permesso di mantenere l’aliquota del 12,5% per le imprese con ricavi annui inferiori a 750 milioni di euro. L’Ungheria ha ottenuto che il previsto periodo di transizione di 7 anni venga allungato fino a 10.
Ma ciò di davvero importante che emerge dall’accordo ratificato dai paesi OCSE, oltre alla velocità e alla decisione con cui il progetto va avanti, è il fatto che si comincia a discutere delle modalità applicative delle due imposte, le quali, insieme, tra tassazione nel luogo della stabile organizzazione e tassazione nel luogo in cui avvengono effettivamente gli affari, costituiranno una vera a propria riforma fiscale globale: il risultato sarà una ben diversa distribuzione, tra gli Stati, rispetto ad oggi, delle risorse derivanti dalla riscossione delle imposte. Le imprese maggiormente interessate saranno le grandi multinazionali, per evidenti motivi, ma il cambiamento sarà sentito da qualsiasi impresa internazionalizzata.
Le problematiche applicative delle imposte globali si basano sulla difficoltà ad armonizzare, anche nella minima misura necessaria, sistemi fiscali così differenti: le aziende europee redigono i bilanci basandosi su principi contabili che sono diversi da quelli americani, i quali sono diversi da quelli orientali; le normative fiscali, su cui si basa la determinazione delle basi imponibili, sono diverse in quasi tutti gli Stati. Ma si percepisce la volontà di superare questi evidenti problemi tecnici: lo dimostra il fatto, ad esempio, che l’Ungheria ha ottenuto che venisse riconosciuta la deduzione di alcuni costi, come gli stipendi.
Non stupirà se il prossimo passo sarà la discussione sulle modalità di determinazione delle basi imponibili, possibilmente basato su un meccanismo di armonizzazione semplificata; del resto già la formulazione della web tax porta con sé un primo indirizzo di imposizione fiscale non basata sugli utili, le cui modalità di determinazione possono essere delle più molteplici, ma sui profitti in funzione dei ricavi, i quali, questi ultimi, rappresentano una posta identificata in modo eguale da tutti.
by Liberato Ferrara Area Imprese Network
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