Uno dei lavori più complessi che ha dovuto affrontare il nuovo Regno d’Italia è stato quello di mettere ordine e unificare le varie gabelle. Tra le miriadi di tributi applicati con modalità diverse nei vari stati e staterelli una riguardava le carte da gioco. Anche in questo caso occorreva stabilire quale sistema unico adottare. Si decise per una tassa in lire 0,30 per ciascun mazzo di 52 carte o meno, e in lire 0,50 per quelli di più di 52 carte. La carta di ciascun mazzo marcato con il bollo era: l’asso di cuori per carte a punti e figure; l’asso di danaro per mazzi di carte con danari, coppe, spade e bastoni; per il giuoco del cucco, una delle due carte avanti in n. 15 e rappresentanti il gufo, ossia il cucco.
Chi veniva pizzicato con carte non bollate doveva versare una multa. Più tardi, il regio decreto n. 3277/1923 stabilì l’imposta sulle carte da giuoco come una tassa di bollo, applicata nella misura di 3 lire per mazzo, per le carte comuni, e di 5 lire per le carte di lusso, su tutte le carte da gioco fabbricate in Italia o provenienti dall’estero. A pagare la gabella era il fabbricante o l’importatore, che poteva usufruire, però, di uno speciale diritto di credito nei confronti del compratore. La tassa esce di scena e viene abolita grazie all’articolo 90 del decreto Iva e, quindi, nel 1972.
fonte fiscooggi.it