Le spese relative alla distribuzione gratuita a potenziali clienti di campioni di “calzature non in gomma” prodotte da una società non costituiscono spese di rappresentanza e non sono deducibili dal reddito né quando, per pratica commerciale, sono seguite da un ordinativo vero e proprio della merce e il loro prezzo si aggiunge a quello delle altre né quando, per mancato gradimento dei campioni, non segue l’ordinativo. Lo ha affermato la Cassazione nell’ordinanza n. 29124 del 20 ottobre 2021.
A seguito di una verifica nei confronti di una srl esercente attività di “fabbricazione calzature non in gomma”, l’ufficio ha emesso avviso di accertamento per l’anno 2005, determinando maggiori Ires, Iva e Irap, oltre sanzioni e interessi. In particolare, tra gli altri, sono stati recuperati costi ritenuti indeducibili in quanto relativi a campioni di scarpe spediti a potenziali clienti stranieri al fine di far conoscere la tipologia del prodotto e di ottenere successivi ordini di acquisto.
L’invio di tali campionature risulta nella pratica commerciale di tutte le aziende operanti con paesi esteri e costituisce elemento essenziale del ciclo operativo. Nell’ipotesi di mancato gradimento dei campioni, la relativa restituzione rappresenta un’operazione assolutamente antieconomica e non praticabile per i costi di trasporto e per le difficoltà di carattere burocratico concernenti le operazioni doganali. In particolare, la società ha sottofatturato il valore delle merci, rispetto al normale prezzo di vendita riscontrato nelle fatture emesse per la stessa tipologia di beni.
Tale comportamento commerciale trovava giustificazione esclusivamente nello svolgimento delle operazioni doganali poiché, in caso di successiva effettuazione dell’ordine da parte del cliente estero, veniva pagato, unitamente al resto della merce ordinata, un regolare corrispettivo anche per il campione, corrispettivo poi contabilizzato quale sopravvenienza attiva; nel caso in cui l’ordinativo non veniva effettuato, invece, non era prevista alcuna restituzione del campione, anche in ragione della eccessiva onerosità dei relativi costi.
A parere della contribuente, la produzione/vendita di un prodotto di moda, la cessione gratuita di campioni, quale che ne potesse essere il valore, era un costo deducibile la cui utilità si esauriva nelle vendite di una stagione. Sulla base delle disposizioni contenute nell’artico 108 comma 2 Tuir, nel testo applicabile ratione temporis, trattandosi di beni di valore unitario superiore a 25,82 euro distribuiti gratuitamente, anche se prodotti dall’impresa, la società ha quindi dedotto interamente la spesa sostenuta per la relativa distribuzione.
L’ufficio, invece, considerando lo schema commerciale seguito dalla società, ha ritenuto che le scarpe cedute non potessero essere considerate “campioni”: erano provvisti di marchio indelebile in quanto destinati al mercato e costituivano oggetto di cessione, per espresso riconoscimento della società, quando, a seguito della loro presa visione, una volta emessi gli ordini di acquisto, venivano inseriti nella vendita insieme al resto della merce ordinata. Di conseguenza, ha escluso la deducibilità integrale della spesa e ha rideterminato l’ammontare della somma scalabile dal reddito. Mentre la società ha sottratto interamente il costo per la distribuzione gratuita (pari a circa 40.531 euro), l’ufficio, tenendo conto che l’azienda aveva registrato in contropartita sopravvenienze attive (pari a circa 29.432 euro) relative ai beni oggetto inizialmente di cessione gratuita, ha considerato indeducibili i costi corrispondenti alla differenza.
Il rilievo in contestazione è stato confermato dalla Commissione provinciale, ma non dalla regionale che, invece, in riforma del corrispondente capo della sentenza di primo grado, lo ha annullato. L’ufficio ha proposto ricorso per Cassazione lamentando (anche) violazione e falsa applicazione dell’articolo 108, comma 2, Tuir, in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3, cpc, evidenziando che la Ctr avrebbe illegittimamente ritenuto deducibili le spese di rappresentanza costituite dal valore dei campioni omaggio inviati alle ditte estere acquirenti.
La Corte ha accolto il motivo di ricorso e ha affermato che “sotto il profilo dei costi, … e? noto l’indirizzo consolidato… secondo il quale ‘in tema di imposte sui redditi delle persone giuridiche, ai sensi dell’art. 108 (ex 74, secondo comma) del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e di pubblicità va individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi…” (Cassazione, n. 29124/2021).
L’articolo 108, comma 2, del Tuir, nella sua formulazione in vigore fino al 31 dicembre 2007 (quindi prima dell’intervento dell’articolo 1, comma 33, lettera p, legge n. 244/2007 e del Dm 19 novembre 2008, intesi a vincolare la deducibilità dell’onere ai requisiti dell’inerenza e della congruità), non indicava criteri specifici per qualificare le spese di rappresentanza, limitandosi a prevederne la deducibilità nella misura di un terzo del loro ammontare, in quote costanti nell’esercizio in cui erano state sostenute e nei quattro successivi. Rientravano in tale categoria anche le spese sostenute per i beni distribuiti gratuitamente, nonostante recanti emblemi, denominazioni o altri riferimenti atti a distinguerli come prodotti dell’impresa e per i quali non si applicavano le limitazioni alla deducibilità.
Nella fattispecie in esame, la Cassazione ha affermato che “erroneamente … la CTR ha annullato la ripresa dell’Amministrazione finanziaria che, limitatamente ai soli costi riferibili alla cessione di campioni a titolo gratuito (con esclusione delle cessioni diventate onerose), ha considerato indeducibile il relativo costo”.
In tal modo ha distinto implicitamente le cessioni di campioni di scarpe, distribuite prima gratis e che hanno acquisito poi valore commerciale tipico delle altre paia richieste, dalle cessioni di campioni di scarpe che sono state inviate gratis ai clienti e che non sono state foriere di alcuna vendita futura.
Queste ultime, pur essendo gratuite, non hanno le finalità tipiche delle spese di rappresentanza, nei termini in cui sono state riconosciute dalla giurisprudenza di legittimità, ma, piuttosto, sono volte a incrementare le vendite come le spese di pubblicità. Anche a voler attribuire ai costi in discussione tale natura, la deducibilità non potrebbe essere invocata poiché le spese di pubblicità non sono gratuite e, per lo più, scaturiscono da un contratto a prestazioni corrispettive, sulla base del quale controparte, dietro corrispettivo, si obbliga a pubblicizzare/propagandare, il marchio e/o il prodotto dell’impresa al fine di stimolarne la domanda; contratto che non risulta essere stato depositato nella fattispecie in esame.
Al riguardo la Corte, con l’ordinanza in esame, ha ribadito che, per orientamento ormai consolidato, “costituiscono spese di rappresentanza i costi sostenuti per accrescere il prestigio e l’immagine della società e per potenziarne le possibilità di sviluppo, senza dar luogo ad una aspettativa di incremento delle vendite, mentre sono spese di pubblicità o propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque al fine diretto di incrementare le vendite’ (Cass. n. 16812/2014 e n. 27482/2014), con la conseguenza che solo le prime sono deducibili nei limiti di quanto previsto dalla richiamata norma (Cass. n. 1922 del 24/01/2019; Cass. n. 25021 del 10/10/2018)”.
by Liberato Ferrara Area Imprese Network
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