La disciplina della revoca dell’autorizzazione a effettuare operazioni intracomunitarie (punto 2.2, provvedimento del 29 dicembre 2010) non richiede che, agli “altri elementi a disposizione dell’AF rappresentativi di criticità e di rischio”, si accompagni necessariamente un credito tributario certo e definito (nel caso concreto, relativo a alle operazioni con società polacche non iscritte al Vies). Lo ha precisato la Cassazione con l’ordinanza n. 28560 del 18 ottobre 2021.
Una srl ha impugnato il provvedimento con il quale l’Agenzia delle entrate, in presenza di elementi di rischio relativi alla posizione fiscale e all’attività svolta dalla contribuente, disponeva la revoca dell’autorizzazione alla società a effettuare operazioni intracomunitarie e, dunque, la sua cancellazione dal sistema elettronico di scambio di dati sull’Iva (Vies, Vat – information exchange system, banca dati dei soggetti passivi che effettuano operazioni intracomunitarie, prevista dall’articolo 17 del regolamento Ce n. 904/2010 del Consiglio).
La Ctp ha respinto il ricorso, considerando il possibile rischio di evasione per indebita sottrazione di imposta a danno dell’Erario, in relazione ai rapporti e alle operazioni intracomunitarie (non imponibili), per importi rilevanti intercorsi con due società polacche “inaffidabili” non iscritte al Vies.
In riforma della sentenza di primo grado, la Commissione regionale ha accolto l’appello della società e ha dichiarato la nullità della revoca dell’autorizzazione. In particolare, il giudice di secondo grado ha osservato che il generico riferimento al “rischio” non giustificava la revoca adottata dall’amministrazione finanziaria, in quanto la motivazione di tale provvedimento non faceva riferimento alle operazioni commerciali con società polacche non iscritte al Vies (circostanza emersa soltanto nel giudizio e sulla quale “la decisione di primo grado è interamente e unicamente basata”) e che non erano stati dimostrati crediti tributari relativi alle stesse, non riscontrabili nella motivazione della sentenza impugnata.
L’Agenzia ha proposto ricorso per cassazione, lamentando (anche) violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 35, comma 15-quater, Dpr n. 633/1972, come integrato dal provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate del 29 dicembre 2010, vigente ratione temporis:
– sia perché la Ctr aveva erroneamente ritenuto illegittimo il provvedimento per mancanza di un credito tributario certo e definitivo dell’amministrazione nei confronti della società;
– sia perché, in relazione agli articoli 3, della legge n. 241/1990, e 2, del Dlgs n. 546/1992, la Ctr aveva considerato la motivazione addotta inidonea a sorreggere il provvedimento, nonostante la stessa fosse conforme alle disposizioni normative, con riguardo alla “presenza di elementi di rischio relativi all’attività esercitata”, compiutamente illustrati nel corso del giudizio.
La Cassazione, con l’ordinanza in esame, ha ritenuto fondati i motivi e ha affermato che “in tema di obbligo di motivazione degli atti dell’amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 7, comma 1, primo periodo, della Legge n. 212 del 2000, è ammessa nel corso del giudizio tributario l’integrazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato una decisione dell’amministrazione succintamente motivata, qualora la successiva esternazione di una compiuta motivazione non abbia leso il diritto di difesa dell’interessato o quando i fondamenti del provvedimento poi impugnato fossero già percepibili, in base al principio di leale collaborazione tra privato e p.a., nella fase endoprocedimentale…”.
I giudici di piazza Cavour sono stati chiamati a verificare la legittimità della motivazione sintetica del provvedimento di revoca, alla luce dei presupposti previsti per la sua adozione, e a chiarire, se tra gli stessi, si deve annoverare anche la sussistenza di un credito tributario.
Con riferimento alla motivazione del provvedimento, la Corte ha dichiarato “erronea la motivazione della sentenza della C.T.R., la quale ha ritenuto …. inammissibile l’integrazione della motivazione riportata nel provvedimento, senza interrogarsi sulla sufficienza delle originarie indicazioni in esso contenute (“presenza di elementi di rischio relativi all’attività esercitata”) a garantire il diritto di difesa del contribuente, sulla percepibilità delle ragioni dell’atto in base alla documentazione acquisita e resa disponibile …” alla società “e sulla possibilità di specificare e chiarire i presupposti del provvedimento innanzi al giudice del merito del rapporto tributario”.
Al riguardo, la Cassazione ha osservato che, nella fattispecie, non trovava applicazione l’articolo 42, Dpr n. 600/1973 (norma che impone un significativo obbligo di motivazione dell’avviso di accertamento in vista di un suo immediato controllo – cfr Cassazione, n. 30039/2018), ma, piuttosto, l’articolo 7, comma 1, primo periodo, legge n. 212/2000, a mente del quale gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati, secondo quanto prescritto dall’articolo 3, legge n. 241/1997, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione. Sulla base di tale rinvio alla legge sul procedimento amministrativo, la Cassazione ha esaminato l’obbligo di motivazione dei provvedimenti in materia tributaria, anche alla luce della giurisprudenza del giudice amministrativo.
Considerato che, oltre al giudice d’appello (secondo il quale, implicitamente, è inammissibile la motivazione “postuma” del provvedimento che, ex post – e, cioè, in giudizio – ha colmato le lacune dell’atto caratterizzato da un’insufficiente esposizione delle ragioni su cui si fonda), anche la giurisprudenza amministrativa esclude, tendenzialmente, la possibilità di una tale motivazione (Consiglio di Stato, sentenza n. 1018/2014). I giudici di legittimità hanno precisato che, tuttavia, il divieto di integrazione postuma non è assoluto e perentorio, e che le sue conseguenze devono essere attenuate (per la ratio dell’articolo 3, legge n. 241/1990; garanzia del diritto di difesa, principio di leale collaborazione tra privato e amministrazione, ruolo di “giudice del rapporto” assunto dal giudice amministrativo al pari del giudice tributario – cfr Cassazione, n. 12597/2020) nei casi in cui:
1- la successiva esternazione di una compiuta motivazione non abbia leso il diritto di difesa dell’interessato;
2- in fase infraprocedimentale, risultano percepibili le ragioni sottese all’emissione del provvedimento gravato;
3- si è in presenza atti vincolati (Consiglio di Stato, sentenza n. 1018/2014).
Alla luce di tali precisazioni, nel caso in contestazione, la Corte ha riscontrato l’esistenza di un provvedimento che, pur omettendo di esplicitare tutti i suoi presupposti, conteneva comunque elementi sufficienti per rendere edotto il destinatario della sua ragione ultima e assicurargli il diritto di difesa, ben potendosi poi specificare e chiarire gli stessi presupposti nel contraddittorio processuale.
Tale conclusione è risultata legittima sulla base del quadro normativo di riferimento ricostruito dai giudici di legittimità: adeguando l’ordinamento nazionale alla normativa europea in materia di operazioni intracomunitarie, ai fini del contrasto delle frodi, l’art. 27, del Dl n. 78/2010, ha modificato l’articolo 35 del Dpr n. 633/1972. Quest’ultima norma (nella formulazione applicabile ratione temporis) prevede, al comma 7-ter, che con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate siano stabilite le modalità di diniego o revoca dell’autorizzazione ex comma 7-bis e che, ai fini del contrasto alle frodi sull’Iva intracomunitaria, sempre con provvedimento dell’Agenzia, siano stabiliti i criteri e le modalità di inclusione delle partite Iva nella banca dati dei soggetti passivi che effettuano operazioni intracomunitarie (il Vies, comma 15-quater). Proprio al fine di attuare il disposto legislativo, il direttore dell’Agenzia ha emanato il provvedimento del 29 dicembre 2010, che contiene (tra l’altro) la disciplina dei presupposti per la revoca dell’autorizzazione all’effettuazione di operazioni intracomunitarie e gli effetti conseguenti (esclusione dall’archivio dei soggetti autorizzati alle operazioni intracomunitarie con effetto dalla data di emissione – punto 6 – subordinata a un’ulteriore valutazione della posizione del contribuente, “fondata su … altri elementi a disposizione dell’Amministrazione finanziaria rappresentativi di criticità e di rischio” – punto 2.2.).
Nella questione esaminata dalla Corte, la revoca ha trovato giustificazione in molteplici motivi e cioè nella presenza sia di elementi di rischio relativi alla posizione fiscale del soggetto richiedente l’inclusione nell’archivio Vies, sia di ruoli non pagati negli ultimi cinque anni per importi rilevanti, sia ancora di elementi di rischio relativi all’attività esercitata che, pur non essendo stati tutti esplicitati, costituivano sufficienti elementi, poi chiariti e precisati durante il contraddittorio processuale, per rendere edotto il destinatario della sua ragione ultima e assicurargli il diritto di difesa.
Infine, con specifico riferimento al primo motivo, la Corte ha statuito che “la disciplina della revoca dell’autorizzazione ad effettuare operazioni intracomunitarie (il richiamato punto 2.2. del provvedimento del 29 dicembre 2010) non richiede che agli “altri elementi a disposizione dell’Amministrazione finanziaria rappresentativi di criticità e di rischio” si accompagni necessariamente un insoluto tributario”.
La Commissione regionale ha errato anche nel ritenere che l’amministrazione finanziaria dovesse dimostrare di essere titolare di un diritto di credito tributario certo e definito, relativo alle operazioni con le società polacche non iscritte al Vies.
Infatti, il tenore letterale del provvedimento riguarda “altri elementi a disposizione dell’Amministrazione finanziaria rappresentativi di criticità e di rischio”, da un lato evidenziando (con le parole “criticità” e “rischio”) un pregiudizio anche soltanto potenziale che non necessariamente si sia già concretizzato nella sottrazione all’imposizione Iva, dall’altro ponendo detti elementi in alternativa (come si evince dal termine “altri”) al già avvenuto “riscontro di gravi inadempimenti relativi agli obblighi dichiarativi IVA nei cinque periodi d’imposta precedenti a quello in corso”.
In conclusione, sarà compito del giudice del rinvio uniformarsi ai principi di diritto enunciati.
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