L’omessa dichiarazione delle attività finanziarie e degli investimenti detenuti all’estero è una violazione che non può essere qualificata come “meramente formale”, in quanto l’obbligo dichiarativo risponde alla finalità di assicurare il monitoraggio dei beni detenuti all’estero, quali manifestazioni del principio costituzionale di capacità contributiva. Sono del tutto irrilevanti, ai fini dell’applicazione delle sanzioni, aspetti quali la buona fede del contribuente o la presunta esistenza di un dibattito sull’incongruenza della sanzione o sulla difficile interpretazione della disciplina. È solo il giudice a poter ravvisare, sulla base degli indici rivelatori fattuali, l’esistenza di una condizione di incertezza inevitabile su contenuto, oggetto e destinatari della disposizione tributaria. Sono queste le interessanti indicazioni della Corte di Cassazione contenute nell’ordinanza n. 40916 del 21 dicembre 2021 in tema di sanzioni sul monitoraggio fiscale (Dl n. 167/1990).
La controversia è sorta in seguito all’impugnazione di un atto di irrogazione sanzioni emesso dall’Agenzia delle entrate per la violazione degli obblighi di monitoraggio fiscale, da parte di un contribuente fiscalmente residente in Italia, riguardo alle attività finanziarie detenute all’estero.
Il ricorso del contribuente è stato accolto dalla Ctr, la quale, in conferma della sentenza di primo grado, ha ritenuto che la sanzione irrogata dall’ufficio non fosse dovuta per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, la violazione dell’obbligo di presentazione del quadro RW della dichiarazione dei redditi sarebbe una violazione meramente formale, non sanzionabile in quanto non crea alcun danno per l’Erario. Oltretutto, l’autore della violazione non sarebbe punibile per obiettive condizioni di incertezza circa l’obbligo di dichiarare le attività finanziarie e gli investimenti detenuti all’estero, correlate alla buona fede dell’obbligato.
L’amministrazione finanziaria ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Ctr, lamentando violazione delle disposizioni contenute nell’articolo 10 della legge n. 212/2000 e nell’articolo 8 del Dlgs n. 546/1992. In questa sede, l’Agenzia delle entrate ha addebitato al giudice di merito di non aver colto la ratio della disciplina del monitoraggio fiscale, di assicurare la trasparenza delle informazioni inerenti ai beni detenuti all’estero per l’alto rischio di evasione che tali operazioni comportano. A parere dell’amministrazione, tali violazioni non possono essere derubricate a mere violazioni formali, perché la mancata indicazione di asset detenuti all’estero è un fattore che può incidere negativamente sull’attività di controllo e potrebbe provocare un danno erariale.
La ricorrente Agenzia contesta anche la supposta incertezza normativa delle disposizioni contenute nell’articolo 4 del Dl n. 167/1990, la cui interpretazione, al contrario, è sempre stata univoca nel definire i requisiti soggettivi e oggettivi della disciplina, il che porta a escludere le condizioni di incertezza del quadro normativo erroneamente ravvisate dal giudice d’appello.
La Corte di cassazione ha ritenuto fondati i motivi propugnati dalla parte pubblica e ha accolto il ricorso. Di conseguenza, il collegio ha cassato la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, ha respinto l’originario ricorso proposto dal contribuente e riconosciuto la validità dell’atto di irrogazione sanzioni.
La disciplina sul monitoraggio fiscale delle attività finanziarie e degli investimenti detenuti all’estero dai soggetti fiscalmente residenti in Italia è contenuta nel Dl n. 167/1990. In ragione dell’articolo 4, comma 1 del decreto, sono obbligati al monitoraggio fiscale i soggetti, residenti in Italia, che detengono investimenti all’estero o attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia, tra cui:
-persone fisiche, compresi i titolari di reddito d’impresa e di lavoro autonomo;
– enti non commerciali;
– società semplici;
-enti equiparati alle società semplici ai sensi dell’articolo 5 del Tuir, quali le società di fatto che non abbiano a oggetto l’esercizio di attività commerciale e le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni;
– enti di previdenza obbligatoria (casse professionali) istituiti nelle forme di associazione o fondazione.
L’obbligo dichiarativo riguarda anche i soggetti che, sulla base delle disposizioni in materia di antiriciclaggio contenute nel Dlgs n. 231/2007, rivestono la qualifica di titolari effettivi dell’entità che detiene direttamente il patrimonio all’estero.
Devono essere dichiarati nel quadro RW tutti gli investimenti di natura patrimoniale detenuti all’estero, produttivi di redditi imponibili in Italia, nonché le attività di natura finanziaria da cui derivano redditi di capitale e redditi diversi di natura finanziaria di fonte estera.
Il regime sanzionatorio relativo alle violazioni degli obblighi in materia di monitoraggio fiscale è regolato dall’articolo 5 del Dl n. 167/1990. Attualmente, la sanzione amministrativa pecuniaria prevista in caso di violazione degli obblighi di monitoraggio delle consistenze degli investimenti all’estero e delle attività estere di natura finanziaria è stabilita, dal comma 2 dell’articolo 5, nella misura compresa tra il 3 e il 15% dell’ammontare degli importi non dichiarati nel quadro RW. La sanzione è applicata, nella più alta misura compresa tra il 6 e il 30% dell’ammontare non indicato nel quadro RW, nel caso di asset detenuti in uno Stato o Territorio a regime fiscale privilegiato. In ultimo, nell’ipotesi in cui il quadro RW sia presentato con un ritardo non superiore ai novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi, la sanzione amministrativa pecuniaria è applicata nella misura fissa di 258 euro.
Il tema verte su due distinte questioni. La prima se la mancata presentazione del quadro RW sia una violazione meramente formale non punibile e, la seconda, se ai fini sanzionatori sono rilevanti aspetti quali la buona fede del contribuente o l’esistenza di un presunto dibattito sull’incongruenza della sanzione o sulla difficile interpretazione della disciplina del monitoraggio fiscale.
In primo luogo, circa l’ipotesi di configurare le violazioni degli obblighi di monitoraggio fiscale come violazioni meramente formali, in quanto tali non punibili ai sensi dell’articolo 10, comma 3 dello Statuto del contribuente (legge n. 212/2000) e dell’articolo 6, comma 5-bis del Dlgs n. 472/1997, secondo cui non sono punibili le violazioni che non arrecano pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo dell’amministrazione finanziaria e non incidono sulla corretta determinazione della base imponibili e dell’imposta nonché sul versamento del tributo, la Corte di Cassazione ha fornito una risposta che non lascia spazio a interpretazioni.
Le violazioni degli obblighi di monitoraggio fiscale, infatti, sono fattispecie punibili e non ascrivibili a violazioni meramente formali, posto che l’obbligo dichiarativo risponde alla finalità di assicurare il monitoraggio dei beni detenuti all’estero quali manifestazioni del principio costituzionale di capacità contributiva.
Ancora più interessante è il secondo tema. In buona sostanza, ci si chiede se fattori come la buona fede del contribuente, che abbia consapevolmente omesso di comunicare gli asset detenuti all’estero, o l’esistenza di un dibattito sull’incongruenza delle sanzioni del monitoraggio fiscale e sulla difficile interpretazione della relativa disciplina costituiscano validi esimenti per disapplicare le sanzioni amministrative tributarie.
In effetti, l’articolo 6, comma 3, del Dlgs n. 472/1997 – che sul punto riprende il principio sancito sia nell’articolo 10, comma 3, della legge n. 212/2000 che nell’articolo 8, comma 1, del Dlgs n. 546/1992 – comprende, tra le cause di non punibilità, l’ipotesi che la violazione sia stata determinata da obiettive condizioni di incertezza normativa sulla portata e sull’ambito di applicazione di una disposizione.
È bene premettere, che l’oggettiva condizione di incertezza costituisce una situazione diversa rispetto alla “soggettiva ignoranza incolpevole” disciplinata dal comma 4 del citato articolo 6, sebbene gli effetti siano i medesimi.
Tanto premesso, per fornire una risposta alla questione controversa, la Corte di cassazione ha fornito una serie di “indizi” rivelatori della condizione di incertezza normativa oggettiva, caratterizzata in linea generale dall’impossibilità di individuare con sicurezza e univocamente la norma giuridica nel cui ambito rientra il caso in esame quali, ad esempio: “(1) la difficoltà di individuazione delle disposizioni normative; (2) la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; (3) la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; (4) la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà; (5) l’assenza di una prassi amministrativa o la contraddittorietà delle circolari; (6) la mancanza di precedenti giurisprudenziali; (7) l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, specie se sia stata sollevata questione di legittimità costituzionale; (8) il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; (9) il contrasto tra opinioni dottrinali; (10) l’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di una disposizione implicita preesistente”.
È compito specifico del giudice di merito, unico soggetto dell’ordinamento a cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione, valutare gli indici rivelatori fattuali e ravvisare una condizione di incertezza inevitabile su contenuto, oggetto e destinatari della disposizione tributaria. In altre parole, soltanto il giudice, sulla base di una valutazione complessiva della produzione normativa-dottrinale-giurisprudenziale, deve accertare l’impossibilità di individuare la norma giuridica applicabile al caso concreto.
Sulla base di tale principio è di tutta evidenza che elementi quali la buona fede del contribuente che, conscio della disponibilità di attività finanziarie all’estero, non abbia presentato il quadro RW della dichiarazione oppure l’esistenza di un presunto contrasto sull’incongruenza delle sanzioni sono assolutamente irrilevanti ai fini dell’imputabilità della responsabilità amministrativa tributaria. Al contempo, è irrilevante la doglianza avanzata dal contribuente sull’esistenza di un dibattito sulla difficile interpretazione delle disposizioni contenute nel Dl n. 167/1990 perché, come confermato dalla Corte di cassazione, la norma è chiaramente diretta ad assicurare il monitoraggio delle attività finanziarie e degli investimenti detenuti all’estero, al fine della tutela del principio della capacità contributiva contenuto nell’articolo 53 della Costituzione.
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