Il professionista non ha diritto alla detrazione Iva sulle spese sostenute per la ristrutturazione dello studio condotto in locazione. Il beneficio scatta solo in caso di lavori di adattamento e non radicali che, tra l’altro, spetterebbero al proprietario locatore. Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con l’ordinanza n. 14853 dell’11 maggio 2022, ha respinto il ricorso di un architetto
La vicenda processuale e la pronuncia della Cassazione
L’Agenzia delle entrate emetteva, nei confronti di un professionista, un avviso di accertamento con cui contestava la detraibilità dell’importo relativo all’Iva sugli acquisti effettuati per la ristrutturazione di un immobile, condotto in locazione dal contribuente e adibito a studio professionale. Secondo l’ufficio si trattava, infatti, di una spesa straordinaria di competenza del locatore proprietario e non del conduttore libero professionista, connotandosi l’operazione come fiscalmente elusiva dell’imposta dovuta.
La Ctp accoglieva il ricorso del contribuente con sentenza poi riformata in appello.
Con il proprio ricorso in Cassazione il contribuente denunciava, tra l’altro, violazione dell’articolo 19 del Dpr n. 633/1972, per avere la Ctr ritenuto che la detrazione Iva sarebbe possibile solo in relazione al mero adattamento dei locali dell’attività professionale del conduttore.
Nel rigettare il ricorso la Cassazione ha precisato che i lavori fatti erano abnormi e non di mero adattamento: motivo per cui la spesa era antieconomica (di molto superiore, in proporzione) ai canoni di locazione tra l’altro spettante al proprietario locatore.
L’accertamento è stato quindi confermato e reso definitivo in sede di legittimità. Per la suprema Corte, infatti, giustamente la Ctr Lombardia ha accertato che la singolare operazione economica posta in essere dal contribuente – in virtù della quale una spesa straordinaria di radicale ristrutturazione dell’immobile di competenza del locatore proprietario dell’immobile veniva sostenuta dal locatario libero professionista – è stata contestata dall’Agenzia ad ampio spettro nella sua dimensione elusiva. Nel quadro di detta operazione, l’antieconomicità non ha rappresentato il profilo assorbente. Piuttosto, la portata esorbitante dell’esborso effettuato in funzione della ristrutturazione complessiva del bene e del suo cambio d’uso è espressiva, tanto nella contestazione dell’Agenzia, quanto nella ricostruzione della Ctr meneghina che su detta contestazione si sofferma, proprio della non inerenza della spesa.
Ciò anche perché, in materia di Iva, l’inerenza del costo non può essere esclusa in base a un giudizio di congruità della spesa, salvo che l’amministrazione finanziaria ne dimostri la macroscopica antieconomicità ed essa rilevi quale indizio dell’assenza di connessione tra costo e attività d’impresa (cfr Cassazione nn 19341/2020, 19804/2018 e 33574/2018; in ambito europeo cfr Corte di giustizia, 20 gennaio 2005, C-412/03, Hotel Scandic G5satMck; 26 aprile 2012, C-621/10 e C129/11, Balkan).
In altre parole, la pretesa dell’ufficio è fondata perché l’ammontare degli esborsi per la ristrutturazione confligge con un canone di economicità che non trova obbiettiva giustificazione in rapporto alla entità elevata dei costi sostenuti. I giudici di merito si sono, pertanto, accertati della non inerenza dei beni rispetto all’attività professionale svolta, valorizzando la descrizione delle opere contenuta nel capitolato allegato al contratto di locazione ed evidenziando come le stesse non siano consistite “in un semplice adattamento dei locali alle esigenze connesse alla attività professionale del locatario“, piuttosto sostanziandosi in una “ristrutturazione completa e radicale dell’immobile, comprensiva dei lavori di rimozione e rifacimento del manto di copertura dell’edificio, smantellamento e rimozione degli impianti tecnologici, demolizione e rimozione della pavimentazione interna ed esterna, delle vasche di raccolta e trattamento dei liquami e delle connesse tubazioni”.
Ulteriori osservazioni.
Il principio dell’inerenza dei costi si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, esclusa ogni valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta) o congruità, perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo (cfr Cassazione nn. 450/2018 e 18904/2018).
La prova dell’inerenza di un costo quale atto d’impresa, ossia dell’esistenza e natura della spesa, dei relativi fatti giustificativi e della sua concreta destinazione alla produzione quali fatti costitutivi su cui va articolato il giudizio di inerenza, incombe sul contribuente in quanto tenuto a provare l’imponibile maturato. L’amministrazione, tuttavia, può contestare l’incongruità e l’antieconomicità della spesa, che assumono rilievo sul piano probatorio come indici sintomatici della carenza di inerenza pur non identificandosi in essa. In tal caso, è onere del contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali. In materia di Iva, invece, l’inerenza del costo non può essere esclusa in base a un giudizio di congruità della spesa, salvo che l’amministrazione finanziaria ne dimostri la macroscopica antieconomicità ed essa rilevi quale indizio dell’assenza di connessione tra costo e l’attività d’impresa: in detta ipotesi, spetta al contribuente provare che la prestazione del bene o servizio è reale e inerente all’attività svolta.
Non è possibile, quindi, applicare direttamente e automaticamente le conclusioni sull’antieconomicità al comparto dell’Iva, tributo basato sul principio di neutralità che, attraverso il meccanismo della detrazione, mira a esonerare completamente gli imprenditori, negli scambi B2B, dall’imposta. Sia la sesta direttiva, che l’articolo 19 del Dpr n. 633/1972, nulla prevedono in merito al “valore” del bene o del servizio acquistato, proprio in ragione del suindicato principio di neutralità: qualunque sia l’importo del bene o del servizio nei vari passaggi intermedi, l’erario, di regola, non subisce alcun danno in quanto l’Iva a debito del fornitore (addebitata in via di rivalsa alla controparte), corrisponde di regola (a meno che non vi siano limitazioni al diritto alla detrazione) all’Iva a credito del cliente titolare del diritto alla detrazione. Queste considerazioni sono suffragate anche da alcune recenti pronunce della Corte di giustizia Ue, secondo le quali sarebbe del tutto irrilevante che un’operazione economica sia effettuata a un prezzo inferiore o superiore all’effettivo valore di mercato poiché, qualora gli scambi siano effettuati tra soggetti che godono entrambi per intero del diritto alla detrazione, non può sussistere alcuna elusione o evasione dell’Iva (sentenza 26 aprile 2012, C-621/10 e C-129/11).
L’amministrazione finanziaria può contestare la detrazione soltanto qualora l’antieconomicità sia assunta quale indizio di non veridicità della fattura (intesa come inesistenza dell’operazione o infedeltà del prezzo fatturato) oppure in difetto di inerenza dell’operazione con l’attività esercitata. Qualora il Fisco riesca a dimostrare l’antieconomicità manifesta e macroscopica, spetterà al contribuente dimostrare l’effettività e l’inerenza dell’operazione (cfr Cassazione n. 27199/2013).
fonte fiscooggi.it