L’inefficacia delle sanzioni imposte dall’Occidente contro la Russia sta nei numeri della sua economia. Una lunga analisi dell’Economist testimonia che chi all’inizio di aprile si aspettava un rapido collasso dell’attività economica di Mosca è destinato a dover aspettare ancora a lungo.
L’economia reale, scrive il settimanale britannico, “si è rivelata sorprendentemente resiliente”. Certo, i prezzi in consumo sono balzati di oltre il 10% dall’inizio dell’anno sulla scia del deprezzamento del rublo, che ha reso più care le importazioni, e della ‘fuga’ di molte compagnie occidentali, che ha ridotto l’offerta.
Ma i dati “in tempo reale” stanno in gran parte tenendo. I consumi elettrici sono scesi solo di poco. E, secondo i numeri forniti da Sberbank, dopo un primo choc a marzo, i russi sembrano essere tornati allegramente a spendere in caffè, bar e ristoranti.
A fine aprile la banca centrale ha ridotto il tasso d’interesse chiave dal 17% al 14%, segnalando che il panico finanziario di febbraio si sta raffreddando. E a oggi le stime degli analisti, che si attendevano un crollo del Pil fino al 15% quest’anno, cominciano a sembrare eccessivamente pessimistiche.
D’altronde, ragiona l’Economist, la Russia aveva un’economia piuttosto “chiusa” anche prima dell’invasione in Ucraina e questo limita la portata dei danni che le sanzioni riescono a creare. Ma la ragione più forte del fallimento della strategia dell’Occidente è nelle fondamenta stesse dell’economia russa, basata saldamente sui suoi immensi giacimenti di combustibili fossili.
Dall’inizio della guerra, Mosca ha esportato combustibili fossili per almeno 65 miliardi di dollari, calcola il finlandese Centre for research on Energy and Clean air. Nel primo trimestre dell’anno gli incassi di Mosca dagli idrocarburi sono cresciute di oltre l’80% su base annua. Ogni giorno il Paese accumula circa un miliardo di dollari grazie al suo export energetico.
Nonostante Mosca abbia sospeso la pubblicazione delle statistiche sul commercio estero, alcuni numeri si possono ricavare dai dati diffusi dai suoi principali partner. Ad esempio, le esportazioni cinesi verso la Russia sono rimaste sostanzialmente stabili ad aprile, mentre le importazioni sono cresciute del 13%.
La Germania ha visto il suo export scendere del 62% e le importazioni contrarsi soltanto del 3%. The Economist calcola che, nel complesso, dal giorno dell’invasione dell’Ucraina, le importazioni russe si sono ridotte di circa il 44%, mentre le esportazioni sono cresciute di circa l’8%.
Al collasso dell’import hanno contribuito l’espulsione di Mosca dal sistema Swift per i pagamenti internazionali e l’iniziale deprezzamento del rublo, che ha peraltro largamente recuperato terreno. Ma le esportazioni hanno tenuto sorprendentemente bene, incluse quelle verso i Paesi occidentali che non hanno mai smesso di comprare petrolio e gas dal Cremlino.
Il risultato di tutto ciò è che, secondo gli esperti, il surplus commerciale russo potrebbe raggiungere livelli record nei prossimi mesi. L’Institute of international finance stima che l’avanzo corrente potrebbe arrivare a 250 miliardi di dollari, il 15% del Pil, oltre il doppio rispetto ai 120 miliardi di dollari registrati nel 2021.
Insomma, lamenta Claus Vistesen di Pantheon Macroeconomics, le sanzioni hanno finito per finanziare la guerra e la loro efficacia, osserva Elina Ribbakova dell’Iif, si sta sempre più indebolendo. Sullo sfondo resta il possibile blocco Ue alle importazioni di petrolio russo. Ma, al di là delle divisioni che ancora dilaniano l’Unione sul punto, anche fosse approvato immediatamente l’impatto dello stop comincerebbe a farsi sentire su Mosca soltanto a inizio 2023. A casse ampiamente riempite.
fonte agi.it