Il documento extracontabile, riportante una tabella con importi in corrispondenza dei nomi dei dipendenti e degli amministratori di una società, è sufficiente, da solo, a giustificare la pretesa fiscale fondata sulla presunzione di compensi “fuori busta” ricevuti, ma non dichiarati dal percettore.
Lo ha affermato la cassazione nell’ordinanza n. 10493 del 31 marzo 2022.
I fatti
La fattispecie in esame è relativa pretesa avanzata con l’avviso di accertamento ai fini Irpef per l’anno 2010, con il quale è stata contestata al contribuente, già presidente di una srl, la percezione di compensi in nero.
Durante una verifica fiscale della guardia di finanza alla società, infatti, sono stati rinvenuti documenti extracontabili, elaborati nell’ambito delle politiche del personale e riconducibili alle scelte del gruppo dirigente, dai quali è emerso un quadro sistematico e coerente di pagamenti fuori busta, sottratti alla contabilità ufficiale dell’impresa. In particolare, si trattava di prospetti riepilogativi, numerati da 1 a 12 (precisamente da 1/12 a 12/12), nei quali risultavano indicati, in corrispondenza del nome di persone impiegate a vario titolo presso la società verificata, specifici importi erogati “in nero” agli stessi soggetti.
Nella fattispecie, i verificatori hanno rilevato che il primo dei prospetti (foglio 1/12) conteneva un elenco di persone facenti parte del gruppo dirigente della società e che, tra gli stessi soggetti, era incluso il contribuente, identificato con l’appellativo di “geom” e cioè con il titolo, di “geometra” appunto, corrispondente al ruolo assunto dall’uomo nell’ambiente sociale. L’identificazione della persona corrispondente aveva portato i verificatori al contribuente, già presidente della srl, soggetto con il quale la società verificata intratteneva regolari rapporti e che, per la sua qualità, risultava essere stato beneficiario, nell’anno d’imposta 2010, di emolumenti extra pari a euro 120mila non dichiarati. L’ufficio, quindi, recependo integralmente il pvc della Guardia di Finanza, ha determinato il reddito da lavoro dipendente ex articolo 49 Dpr n. 917/1986, accertando un maggior reddito imponibile ai fini Irpef in via presuntiva ex articolo 39, 1 comma, lettera d), Dpr n. 600/1973.
I giudici di merito hanno ritenuto fondate le difese della società, sia perché il prospetto corrispondeva a un piano di incentivi, predisposto dall’azienda con l’obiettivo di determinare le somme da attribuire per l’anno 2011 al personale più capace, sia perché tale elemento presuntivo doveva essere valutato unitamente ad altri elementi, anche presuntivi, non apparendo sufficiente, da solo, a far ritenere sussistente la corresponsione di emolumenti in nero. In particolare la commissione regionale, confermando la sentenza di primo grado, ha ribadito che la tabella con i nomi dei dipendenti e con le relative cifre non aveva trovato riscontro nelle scritture contabili e non poteva essere ritenuta documento idoneo a supportare la ricostruzione di compensi fuori busta, necessitando, oltre che di un collegamento con l’accertamento di ricavi in nero a carico della società, anche di un ulteriore «riscontro effettivo e finanziario che poteva essere ricercato sicuramente, … in entrate commerciali in nero, ma anche con flussi in uscita da conti correnti ai quali potrebbero corrispondere entrate in altro conto corrente.»
L’ufficio ha proposto ricorso per cassazione, lamentando falsa applicazione di norme di diritto (articoli 2709, 2727 e 2729 codice civile, articolo 39, comma 1, lettera d), Dpr n. 600/1973 e articolo 54, Dpr n. 633/1972): la Ctr, avendo negato alla documentazione extracontabile la valenza di prova indiziaria idonea a giustificare l’emissione di un avviso di accertamento, si era posta in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la “contabilità in nero”, costituita da appunti personali, rappresenta un elemento indiziario dotato dei requisiti di gravità e precisione, ex articolo 39, Dpr n. 600/1973, senza che l’ufficio debba addurre ulteriori elementi. A tale orientamento il giudice di appello si sarebbe dovuto uniformare a maggior ragione considerando, nella fattispecie al suo esame, le informazioni contenute nella tabella “in contrasto” con l’affermata politica degli incentivi per il personale meritevole, e cioè la dizione di alcuni prospetti (tredicesime, extra mese di…) e la circostanza che alcuni nominativi dell’elenco corrispondevano a personale non più dipendente dalla società nel 2011.
La Suprema corte ha ritenuto fondato il motivo di ricorso e ha affermato che, «in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la ‘contabilità in nero’, costituita da appunti personali e da informazioni dell’imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, prescritti dal Dpr n. 600/1973, articolo 39» (n. 10493/2022).
Osservazioni
I giudici della Cassazione hanno richiamato l’orientamento di legittimità consolidato con riferimento ai punti nodali attorno ai quali si è sviluppata la fattispecie in esame e cioè: la legittimità della rettifica del reddito di un contribuente sulla base di controlli effettuati nei confronti di soggetti terzi, la nozione di documentazione extracontabile, la rilevanza indiziaria delle presunzioni desumibili dal ritrovamento di “contabilità in nero” e la ripartizione dell’onere della prova.
L’articolo 39, comma 1, Dpr n. 600/1973, dopo aver enunciato le diverse fattispecie che costituiscono i presupposti dell’accertamento (analitico) del reddito d’impresa basato sulle risultanze della contabilità prevede alla lettera d), ultimo periodo (sovrapponibile all’articolo 54, comma 2, Dpr n. 633/1972), che «l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti» (accertamento analitico – induttivo).
Al riguardo, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la cassazione ha affermato che l’articolo 39, comma 1, lettera d), Dpr n. 600/1973 consente di procedere alla rettifica del reddito anche quando l’incompletezza della dichiarazione risulta «dai verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti», da cui derivino presunzioni semplici, desumibili da documentazione extracontabile e in particolare da “contabilità in nero”, costituita da appunti personali e informazioni dell’imprenditore.
I giudici di legittimità hanno precisato che rientrano nella definizione di “scritture contabili” disciplinate dagli articoli 2709 codice civile e seguenti, tutti «i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore e il risultato economico dell’attività svolta» (Cassazione n. 27622/2018, n. 12680/2018 e n. 36488/2021). Di conseguenza, tale contabilità “non ordinaria” fa prova di quanto vi è scritto nei confronti dell’imprenditore e costituisce perciò un valido supporto indiziario a cui può appellarsi il fisco nella sua azione accertatrice e su cui fondare il recupero dei maggiori imponibili (cassazione, n. 19424/2015).
In particolare, con riferimento alla rilevanza probatoria della “contabilità in nero”, la Corte ha chiarito che il rinvenimento di documenti, elementi, dati e notizie (tenuti su brogliacci, agende-calendario, block notes, pen drive, quadernoni, post-it, etc.), non riconducibili alle scritture contabili formalmente tenute costituisce indizio suscettibile di fondare la presunzione di maggiori redditi non dichiarati, autorizzando l’amministrazione finanziaria alla rettifica induttiva (Cassazione, n. 14770/2011).
Tale contabilità, inoltre, costituisce, anche da sola, un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’articolo 39, Dpr n. 600/1973 e, sebbene rinvenuta preso terzi e di altro contribuente, per il suo valore probatorio, legittima di per sé, e a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento, il ricorso all’accertamento analitico-induttivo ex articolo 39, Dpr n. 600/1073, con conseguente applicazione del principio dell’inversione dell’onere probatorio (Cassazione, n. 4080/2015, n. 12680/2018 e n. 27622/2018).
Anche in caso di rinvenimento della documentazione presso terzi (la società, nella fattispecie in esame), infatti, i giudici di legittimità hanno ribadito che grava sul contribuente l’onere di fornire la prova contraria al fine di contestare la legittimità dell’atto impositivo notificato (Cassazione n. 4080/2015, n. 14150/2016, n. 12680/2018, n. 26666/2020 e n. 26487/2020). Prova che, comunque, il contribuente avrebbe potuto fornire con la presentazione della contabilità societaria dalla quale risultavano gli effettivi pagamenti ricevuti (Cassazione n. 14992/2017) e che, comunque, non ha apportato limitandosi alla mera contestazione dell’idoneità della prova presuntiva utilizzata dall’ufficio.
fonte fiscooggi.it