Il delitto di omesso versamento dell’Iva si intende integrato dalla consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti. A nulla rilevano i motivi della decisione di non assolvere il debito tributario, salvo che l’agente dimostri e documenti di non aver potuto adempiere per cause indipendenti dalla sua volontà. Ai fini dell’esclusione della colpevolezza, non basta addure come motivazione la crisi di liquidità dovuta a motivi commerciali, a meno che l’imprenditore non riesca a provare di aver adottato tutte le iniziative possibili per provvedere alla corresponsione del tributo, anche attingendo al patrimonio personale. Sono queste le precisazioni fornite dalla sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 43919 del 29 novembre 2021.
Nell’ambito del procedimento in esame, la Corte d’appello aveva confermato il ricorso del pubblico ministero avverso la sentenza di primo grado, condannando così l’imputato per il reato di omesso versamento dell’Iva, previsto dall’articolo 10-ter del Dlgs n. 74/2000 in relazione alla società di cui era rappresentante legale.
Avverso la sentenza di condanna, l’imputato proponeva ricorso lamentando l’illegittimità della sentenza per assenza del requisito soggettivo per la configurabilità dei reati che gli erano stati ascritti. Nel caso concreto, infatti, la società avrebbe omesso il versamento dell’Iva a causa di una gravissima crisi economica e finanziaria legata a una improvvisa contrazione del mercato di riferimento e nella conseguente assoluta incapacità dell’ente di far fronte ai propri impegni nei confronti dell’Erario. Tale circostanza avrebbe indotto la società a scegliere come allocare le scarse risorse finanziarie disponibili, pagando i fornitori e i lavoratori e omettendo il versamento dei debiti tributari dovuti.
L’articolo 10-ter del Dlgs n. 74/2000 punisce “con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta”.
In base al disposto normativo, quindi, il reato in argomento presenta i seguenti elementi costitutivi:
1) la presenza di un soggetto che per legge è tenuto ad assolvere gli adempimenti Iva (il reato è, infatti, un “reato proprio”);
2) l’elemento soggettivo del “dolo generico”, inteso come coscienza e volontà di omettere il versamento dell’imposta, a nulla valendo, almeno in linea di principio, che l’omissione si riveli una scelta obbligata dalla necessità di convogliare le risorse finanziarie al pagamento di altri debiti (come, ad esempio, gli stipendi dei dipendenti);
3)trattandosi di reato di mera omissione, la condotta delittuosa si concretizza con il mancato pagamento dell’imposta entro il termine stabilito per l’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, in ragione dell’inerzia del soggetto passivo di far fronte al proprio obbligo giuridico;
4) la soglia di punibilità, pari a 250mila euro, fissata sulla base del presupposto per cui, per il mancato versamento dell’Iva al di sotto di tale soglia, sono ritenute sufficienti le soli sanzioni amministrative previste dall’articolo 13 del Dlgs n. 471/1997.
La decisione in esame si sofferma, in particolare, sulla corretta configurabilità dell’elemento soggettivo caratterizzante il reato di omesso versamento dell’Iva valevole, peraltro, per gli altri reati penal-tributari di natura omissiva.
Sul tema, la Corte di cassazione ha ribadito che il dolo generico fa sì che risultino irrilevanti i motivi della scelta dell’agente di omettere il versamento del tributo, salvo ipotesi di “forza maggiore” come definite dall’articolo 45 del codice penale, secondo cui “non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore”.
Con specifico riferimento al delitto di omesso versamento dell’Iva, i giudici di legittimità concordano nel ritenere ravvisabile una “causa di forza maggiore” solo quando la causa del mancato assolvimento “derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico”.
Resta da chiedersi, allora, se una improvvisa causa di mancanza di liquidità della società, legata a una improvvisa contrazione del mercato di riferimento o alla mancata riscossione di crediti, rappresenti una causa di forza maggiore che possa escludere la colpevolezza dell’agente ed evitargli le sanzioni previste dalla legge penale.
Anche su questo aspetto la Corte di cassazione ha fornito importanti spunti, partendo dal presupposto che la mancata riscossione di crediti o il cambiamento (in peggio) delle condizioni di mercato sono eventi che rientrano nel normale rischio di impresa. Di conseguenza, l’improvvisa crisi di liquidità rileva, ai fini di cui si parla, solo se l’agente dimostra di aver adottato tutte le iniziative necessarie per far fronte alla corresponsione del tributo, “anche attingendo al patrimonio personale”.
Per quanto riguarda tale condizione esimente, l’agente non può limitarsi a sostenere in maniera generica di aver posto in essere tutte le azioni possibili per fronteggiare la crisi finanziaria. dovendo egli dimostrare tale circostanza con tutti gli elementi probatori possibili.
In altre parole, il concetto di forza maggiore è legato all’individuazione di un fatto “imponderabile, imprevisto e imprevedibile” che esula completamente dalla volontà dell’agente, “sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione o ad un’omissione cosciente e volontaria”, a maggior ragione quando la scelta di non pagare il debito tributario sia sistematica e si protragga nel tempo.
by Liberato Ferrara Area Imprese Network
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