Ai fini dell’applicazione del regime di non imponibilità per le Stato membro grava sul contribuente e non può risolversi nella prova circa l’operatività dell’acquirente estero (iscrizione alla Camera di commercio, possesso di una partita Iva). Così si è espressa l’ordinanza n. 25587 del 21 settembre 2021 della Corte di cassazione, fornendo l’occasione per fare il punto sulle recenti novità che hanno interessato la materia.
Il regime di non imponibilità ai fini IVA delle cessioni intracomunitarie: qualche breve cenno
In conformità all’articolo 138 della direttiva n. 112/2006/Ce, l’articolo 41, comma 1, lettera a), del Dl n. 331/1993, considera non imponibili ai fini Iva “le cessioni a titolo oneroso di beni, trasportati o spediti nel territorio di altro Stato membro, dal cedente o dall’acquirente, o da terzi per loro conto, nei confronti di cessionari soggetti d’imposta […]”. In tali casi, la tassazione avviene infatti nello Stato di destinazione.
Già dalla lettura della norma risultano i tre requisiti delle cessioni non imponibili (secondo la terminologia della direttiva, “esenti”): esse devono essere a titolo oneroso, con trasporto o spedizione nel territorio di un altro Stato membro, a favore di un altro soggetto passivo (una persona fisica o giuridica che, come il cedente, agisce come operatore economico nel proprio Stato).
Per costante giurisprudenza della Corte, l’“esenzione” della cessione intracomunitaria diviene applicabile solo quando il potere di disporre del bene come proprietario è stato trasmesso all’acquirente e quando il venditore prova che tale bene è stato spedito o trasportato in un altro Stato membro e che, in seguito a tale spedizione o trasporto, esso ha lasciato fisicamente il territorio dello Stato membro di cessione.
Trattandosi di norma agevolativa, è pacifico – e lo conferma anche la Corte nella pronuncia che si annota – che la prova del trasporto gravi sul contribuente che invoca la non imponibilità; diversamente, l’amministrazione finanziaria è legittimata a “riclassificare” l’operazione come imponibile, con applicazione dell’Iva secondo le modalità ordinarie.
Sebbene si tratti di aspetto non rilevante ai fini della decisione, è importante sottolineare che costituisce requisito di tipo formale, che non può pregiudicare la non imponibilità (sempre che non ricorrano fenomeni di frode), la circostanza per cui l’acquirente non sia autorizzato nel proprio Stato a effettuare operazioni intracomunitarie o non sia iscritto all’archivio Vies (Vat information exchange system; per informazioni di carattere “operativo”, si veda la pagina dedicata sul sito web dell’Agenzia delle entrate).
In questo senso si esprime la Corte di giustizia (tra le altre, Cgue, 9 febbraio 2017, C-21/16, Euro Tyre BV), con un orientamento recepito anche dalla Corte di cassazione (pronuncia n. 10006/18) e dalla prassi dell’Agenzia delle entrate, in un incontro con la stampa specializzata del gennaio 2019.
La situazione è però destinata a mutare radicalmente, dato che la direttiva 2018/1910/UE del Consiglio, modificando la direttiva Iva, ha elevato il requisito dell’iscrizione al Vies a condizione sostanziale. L’articolo 138 dispone attualmente, infatti, che gli Stati membri “esentano” le cessioni qualora – in aggiunta alle condizioni già note – a) “il soggetto passivo o un ente non soggetto passivo destinatario della cessione è identificato ai fini dell’IVA in uno Stato membro diverso da quello in cui la spedizione o il trasporto dei beni ha inizio e ha comunicato al cedente tale numero di identificazione IVA”, e b) sia presentato – salva la giustificazione della sua omissione “secondo modalità ritenute soddisfacenti dalle autorità competenti” – il modello Intrastat.
La pronuncia della Corte di cassazione affronta una tematica ricorrente, fonte di un vasto contenzioso, ovvero quella della prova del trasporto dei beni e, quindi, del set di documenti da produrre in caso di eventuali contestazioni. Occorre premettere che la direttiva non si occupa dello standard probatorio, e che quindi spetta agli Stati membri, nel rispetto del principio di proporzionalità, individuare la documentazione più idonea allo scopo.
L’Agenzia delle entrate è intervenuta più volte in argomento, con le risoluzioni n. 345/2007, n. 477/2008 e n. 19/2013.
Nella prima, dopo aver ricordato l’obbligo del contribuente di conservare le fatture egli elenchi “Intrastat” (la cui compilazione, come si è visto, a breve costituirà requisito sostanziale della non imponibilità, con superamento della posizione di – ad esempio – Cassazione n. 23763/2015), si è chiarito che può costituire prova idonea l’esibizione del documento di trasporto da cui si evince l’uscita delle merci dal territorio dello Stato, ovvero la “Cmr”, firmata dal trasportatore per presa in carico della merce e dal destinatario per ricevuta. Il contribuente deve inoltre conservare sia la documentazione bancaria, dalla quale risulti traccia delle somme riscosse in relazione alle cessioni, sia la copia degli altri documenti attestanti gli impegni contrattuali che hanno dato origine alla cessione intracomunitaria e al trasporto.
La risoluzione n. 477/2008 riguarda invece la consegna con clausola Exw (Ex Works, o franco fabbrica), che si verifica quando il venditore si limita a mettere la merce a disposizione in un luogo indicato e il trasporto è organizzato dall’acquirente. In questo caso, nel quale il cedente ha il maggior rischio di essere coinvolto in fenomeni di frode, si ritiene che la prova possa essere fornita con qualsiasi documento che sia idoneo, in maniera incontrovertibile, a dimostrare l’invio delle merci. In mancanza di tale prova, ad esempio perché la documentazione è in possesso di terzi “non collaboranti”, il cedente dovrà dimostrare “di aver espressamente concordato, nei contratti stipulati con vettore, spedizioniere e cessionario, l’obbligo di consegna del documento e, a fronte dell’altrui inadempimento, di aver esperito ogni utile iniziativa giudiziaria” (Cassazione, n. 5761/21).
La risoluzione n. 19/2013 e la successiva n. 71/2014 hanno precisato che può costituire prova idonea della fuoriuscita dall’Italia anche il Cmr elettronico, nonché le informazioni tratte dal sistema informatizzato del vettore da cui risulta che la merce ha lasciato il territorio e ha raggiunto il territorio di un altro Stato membro.
Vi è da dire che la situazione è recentemente mutata anche con riferimento agli oneri documentali: l’articolo 45-bis del Regolamento di esecuzione n. 282/2011, introdotto dal Regolamento n. 2018/1912 del Consiglio, nell’intento di rafforzare la lotta alle frodi ha uniformato il regime della prova introducendo due presunzioni relative (e alternative) e un elenco di elementi di prova del trasporto o della spedizione accettati dagli Stati; sul punto, si rinvia all’articolo Cessioni intra-Ue, come provare che la merce ha cambiato Stato e alla risposta a interpello n. 41/2021.
Nella decisione in commento, la Cassazione ha rigettato il ricorso di una nota società di autonoleggio, che denunciava la violazione dell’articolo 41, Dl n. 331/1993, e ha così confermato la sentenza che aveva accolto l’appello dell’amministrazione finanziaria.
Coerentemente con i principi sin qui ricordati, la Corte ha escluso la sufficienza, a tal fine, della produzione delle fatture di vendita, della documentazione bancaria di pagamento e del “certificato di proprietà” delle autovetture iscritte al Pra con l’annotazione della cessazione della circolazione per esportazione; allo stesso modo, ha escluso la valenza probatoria dei documenti, relativi agli acquirenti, che attestano l’iscrizione alla Camera di commercio o il possesso di una partita Iva nel proprio Stato.
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