In materia tributaria, l’Amministrazione finanziaria è legittimata a disconoscere e dichiarare non opponibili le operazioni e gli atti privi di valide ragioni economiche, diretti solo a conseguire vantaggi fiscali.
In caso di comportamento elusivo sono sempre dovute le sanzioni quale naturale conseguenza dell’esito dell’accertamento, avendo il contribuente indicato in dichiarazione un reddito imponibile inferiore a quello accertato.
Questo, in sintesi, il principio contenuto nell’ordinanza n. 15533 del 21 luglio 2020 con cui la Corte di cassazione ha accolto il ricorso presentato dall’Agenzia delle entrate.
Il fatto
La Corte di legittimità si è espressa in merito a una controversia scaturita a seguito del ricorso proposto da una società avverso un avviso di accertamento. Con l’atto impositivo in parola l’Agenzia delle entrate ha rideterminato il reddito imponibile relativo al periodo d’imposta 2003, a seguito del disconoscimento di una minusvalenza conseguente al compimento di operazioni ritenute elusive.
La Commissione tributaria provinciale ha accolto il ricorso, confermando il contenuto dell’avviso di accertamento a eccezione della parte contenente la determinazione delle sanzioni. Il procedimento è giunto dinanzi alla Ctr che si è espressa confermando parzialmente la sentenza di prime cure.
L’Agenzia delle entrate ha così impugnato dinanzi alla Cassazione la decisione d’appello lamentando, per quanto di interesse, violazione dell’articolo 37-bis del Dpr n. 600/1973 per aver il giudice di merito disapplicato le sanzioni pur in presenza di operazioni ritenute elusive, non ravvisandosi nel caso de qua alcuna condizione di incertezza circa la portata e l’ambito di applicazione della normativa di riferimento.
Il Collegio di legittimità ha ritenuto fondata la tesi dell’Amministrazione finanziaria e ha cassato con rinvio la sentenza della Commissione tributaria regionale.
Le norme antielusive
Con l’articolo 37-bis del Dpr n. 600/1973, inserito dall’articolo 7 del Dlgs n. 358/1997, il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento una clausola generale antielusiva nell’ambito della disciplina dell’accertamento delle imposte sui redditi, sebbene la disciplina fosse applicabile a un numero circoscritto di casi, perlopiù legati alle operazioni straordinarie delle società.
In particolare la norma sanciva l’inopponibilità all’Amministrazione finanziaria degli atti, fatti e negozi, anche collegati tra loro, se:
privi di valide ragioni economiche
diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario
volti a ottenere un vantaggio fiscale indebito (riduzione d’imposta o rimborso).
A seguito della revisione della disciplina antielusiva la norma è stata abrogata dal Dlgs n. 128 del 2015, che ha introdotto l’articolo 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente. La novella normativa disciplina il principio generale di divieto dell’abuso del diritto, unificato alla fattispecie dell’elusione, estesa a tutti i tributi, non più limitata a fattispecie particolari e corredata dalla previsione di adeguate garanzie procedimentali a tutela del contribuente.
Il contenuto della decisione
Il tema al centro della controversia in commento riguarda l’applicazione delle sanzioni connesse al recupero a tassazione operato dall’Amministrazione finanziaria a seguito del disconoscimento degli effetti fiscali di un comportamento elusivo.
In linea di principio l’elusione fiscale (e l’abuso del diritto), se da un lato non è penalmente punibile, dall’altro comporta l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie, qualora ricorrano i presupposti.
Sull’argomento si sono generate due tesi contrapposte.
La prima esclude l’applicabilità delle sanzioni connesse a comportamenti ritenuti elusivi ed è fondata sul presupposto che, nel caso di elusione fiscale, la sanzione sarebbe costituita dal recupero a tassazione conseguente al disconoscimento degli effetti fiscali di un comportamento posto in essere senza violazione di alcuna norma civilistica.
La seconda, caldeggiata dall’Amministrazione finanziaria anche nella controversia di cui si parla, è invece favorevole all’applicabilità delle sanzioni perché l’elusione determina comunque il presupposto della dichiarazione infedele, che è fiscalmente sanzionabile aldilà delle modalità in base alle quali il contribuente ha dichiarato un’imposta inferiore rispetto a quella accertata.
Con la sentenza in commento la Corte di cassazione dà continuità al principio espresso in precedenti pronunce secondo cui, a fini dell’applicazione delle sanzioni tributarie, non c’è alcuna incompatibilità tra la condotta prevista dall’articolo 37-bis del Dpr n. 600/1973 e l’applicazione di sanzioni, essendo irrilevante, a tal fine che la minor imposta liquidata –qualsiasi essa sia – derivi da un comportamento evasivo o da un’elusione fiscale o da abuso del diritto (così Cassazione, pronunce n. 34750/2019 e n. 25537/2011, in tema di imposte dirette e Iva, e Cn. 2234/2013 in tema di imposta di registro, ipotecaria e catastale).
La Corte di legittimità ha pertanto confermato il seguente principio di diritto: “in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che trova fondamento nell’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, secondo il quale l’Amministrazione finanziaria disconosce e dichiara non opponibili le operazioni e gli atti, privi di valide ragioni economiche, diretti solo a conseguire vantaggi fiscali, in relazione ai quali gli organi accertatori emettono avviso di accertamento, applicano ed iscrivono a ruolo le sanzioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 471 del 1997, comminate dalla legge per il solo fatto di avere il contribuente indicato in dichiarazione un reddito imponibile inferiore a quello accertato, rendendo così evidente come il legislatore non ritenga gli atti elusivi quale criterio scriminante per l’applicazione delle sanzioni, che, al contrario, sono irrogate quale naturale conseguenza dell’esito dell’accertamento volto a contrastare il fenomeno dell’abuso del diritto”.
fonte fiscooggi.it
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