Dispiace, ancora una volta, sottolineare come la comunicazione istituzionale continui ad imperare, alimentando confusioni e aspettative inattuabili presso coloro che, come da sempre si dice, costituiscono il vero tessuto imprenditoriale nazionale: piccole e medie imprese. Gente che spesso non fa “sensazione” e non è abituata a “gridare”, soprattutto perché impegnata seriamente nel quotidiano a risolvere le tante questioni all’ordine del giorno del palinsesto aziendale.
Un teatro che non ha necessità di chiacchiere e proclami, progetti politici nazionali e sovranazionali, ma – come più facilmente possa immaginarsi – poche e piccole certezze perché, e non è orgoglio popolare, avrebbe solo esigenza di chiarezze che, in questo paese dal panorama politico mediocre, è merce rara.
In realtà le aree focali della vicenda si riassumono in pochi macro-punti mai affrontati con convinzione, per interesse spesso e per incapacità di rapportarsi col ceto comune. Riassumerei, ciò che probabilmente ho desunto dall’interloquire con i miei assistiti in delle semplici “querelle”:
- L’endemica scarsità di denari pubblici che vincolano investimenti strutturali ed interventi finanziari di respiro,
- l’ancora irrisolta scelta istituzionale tra assistenzialismo e tutela sociale rispetto alla creazione dei presupposti che rendano accessibili i fattori produttivi classici dell’azienda: risorse umane e capitale in primis.
In questa sede inutile inerpicarsi in complessi e pericolosi “trattati” tra mediocrità del sistema scolastico e la perenne incapacità del mondo giovanile di “crescere” per essere pronti alla vita, al lavoro, alle responsabilità. Viceversa la riflessione più calzante deve riferirsi all’incompatibilità evidente tra Stato e sistema finanziario che conseguentemente cagiona gli individui e, in special modo, gli imprenditori, che, volenti o nolenti, vivono le responsabilità di fare economia come una propria crociata.
Una mancanza di coordinamento e unità di intenti che, più che far paura, rassegna all’evidenza anche i più renitenti. Che il mondo bancario possa essere recalcitrante ad accettare la garanzia di stato sarebbe un paradosso in qualsiasi paese civile, non in Italia. Ciò comporta che il denaro arrivi non a chi sia effettivamente in crisi, ma solo a chi può restituirlo a prescindere dalla bontà e dall’idea imprenditoriale o dalla prospettiva di rinascita. Sia precluso a chi sia incappato in qualche colpevole, o meno, insolvenza.
Allora è paradossale che – in un paese che ha organizzato e tollerato di tutto e di più tra condoni, indulti, pentimenti ben più gravi – non si sia trovato spazio per una sanatoria delle pregiudizievoli finanziarie che avrebbe rilanciato consumi ed iniziative. Certo, sarebbe aumentato il rischio di approfittatori, ma si può mai pensare che questi siano la maggior parte dei potenziali riabilitati?
Discorso a parte poi per quello che i più chiamano “il gigante burocratico”. Qui il contesto rimane invischiato in mentalità corporativistiche e moltiplicazioni di competenze superflue. Non inganni il ricorso al decreto “semplificazione”, che appare un’operazione di facciata e priva di coraggio, come poi dimostrato dalla vicenda del ponte Morandi a Genova, che evidenzia che non ci sono lungaggini insormontabili e assunzioni di responsabilità insostituibili quando esistono competenze e valori pratici.
Invertire la tendenza appare ancora arduo – CoViD o non CoViD – e molto passa dalla volontà del sistema finanziario di far vera impresa e immettere nel mercato denaro fresco, agevolare progetti organici a salvaguardia della tipicità del Made in Italy, come delle tante eccellenze di cui ci fregiamo nel mondo.
Lo stato – assai discreto – sia tempestivo nelle decisioni e legiferi poco ma comprensibilmente. Non si chieda altro.
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